Carlo Borromeo nacque ad Arona il 2 ottobre 1538 da Giberto e Margherita
Medici. Già a vent'anni ebbe modo di far vedere la sua energia e
il suo senso pratico. Nel luglio del 1558, alla morte del conte Giberto,
padre di Carlo, il governo spagnolo, sempre in guerra con i francesi, mandò
una compagnia di soldati a occupare la Rocca di Arona. Mentre Federico,
il figlio maggiore di Giberto, si disinteressa di quel sopruso, Carlo invece
fa intervenire amici vicini e lontani, fa scrivere al re Filippo II, dà
indicazioni precise al fratello maggiore, gli procura dei soldi. Proprio
in questo tempo, cioè nel dicembre 1559, Carlo termina i suoi studi
all'università di Pavia con la laurea in diritto civile e canonico.
La Rocca di Arona, restituita ai Borromei nel gennaio 1560, venne demolita
nel 1800 per ordine di Napoleone. La camera, in cui era nato il santo, il
cardinale Federico nel 1624 l'aveva trasferita dalla Rocca alla chiesa del
Sacro Monte.
Il fratello della madre di Carlo, il milanese cardinale Giovan Angelo Medici,
il 25 dicembre 1559 divenne papa. Appena eletto Pio IV invita a Roma i figli
della sorella. Assai curiosa è la lettera in cui Carlo descrive il
viaggio da Milano a Roma nel gennaio del 1560. Il giovane scherza su l'affollarsi
delle onorevolissime dame alle finestre di Bologna per ammirare il nipote
del papa, che sta andando verso onori e ricchezze insperate. A Roma i due
fratelli, Federico e Carlo, vivono con uno sfarzo regale.
A fine gennaio Carlo è creato cardinale; in maggio è concluso
il contratto di matrimonio di Federico con Virginia della Rovere, figlia
del duca d'Urbino. Entrambi ricevono altissime cariche, con prebende numerose
e ricchissime. Gerolamo Soranzo, ambasciatore della repubblica di Venezia
a Roma, calcolava nel 1563 a circa cinquantamila scudi il reddito annuo
del cardinale Borromeo. D'improvviso la sera del 19 novembre 1562, dopo
pochissimi giorni di febbre, il ventisettenne conte Federico muore lasciando
senza figli la moglie diciottenne. Per Carlo fu una cosa atroce, uno schianto:
tanto sfarzo principesco, tanta felicità coniugale, tante speranze
per le grandezze della famiglia, tutto in un momento crollava. Più
volte negli anni seguenti il santo arcivescovo ebbe a confidare al suo procuratore
Speciano che la morte improvvisa del fratello fu il mezzo di cui si servì
il Signore per incitarlo a un radicale cambiamento di vita.
Fu una scelta tremenda, ma ben meditata. Era ricchissimo, unico maschio
della famiglia, unico erede dei beni paterni; non era ancora prete; la diciottenne
vedova di suo fratello non aveva figli. A Roma e altrove molti pensavano
e dicevano che quella vedova l'avrebbe sposata lui. Insistenze a tale scopo
gli venivano da parte di parenti e amici, e anche da parte di chi aveva
la più grande autorità su di lui, cioè da parte di
suo zio papa Pio IV, per il quale egli lavorava come il segretario di fiducia.
Avevano visto tutti di quale rigore era capace Pio IV: nel marzo del 1561
aveva fatto giustiziare il cardinale Carlo Carafa, un fratello di lui e
due complici. Pure il giovane nipote riuscì a persuadere lo zio.
Nel concistoro del 4 giugno 1563 papa Pio IV dichiarò: essendo morto
il conte Federico, nel quale egli aveva riposto tutte le speranze per la
continuazione della sua casa, e rimasto solo il cardinale fratello di lui,
molti altri pontefici forse avrebbero invitato, non senza fondati motivi,
il cardinale nipote a sposarsi; ma egli, il papa, aveva deciso che il nipote
perseverasse in quella vocazione, nella quale egli aveva scelto di rimanere;
e perciò lo eleggeva Cardinale Prete. Quindici giorni dopo, il 17
giugno 1563, Carlo ricevette l'ordinazione sacerdotale; quindi il 7 dicembre
venne consacrato vescovo.
Per potere, almeno in parte, comprendere le vicende successive della vita
di san Carlo, la sua severità con se stesso e con gli altri, le sue
insonni fatiche, ci si deve sempre rifare alla crisi religiosa degli anni
1562-63. Volle dunque il giovane cardinale avviarsi con implacabile rigore
alla conquista della perfezione e della santità. Cominciò
a digiunare a pane ed acqua un giorno la settimana, a dedicare lunghe ore
alla preghiera. Ridusse drasticamente le spese della sua casa: licenziò
in una sola volta ottanta dei suoi familiari (erano prima 150).
Nella biografia pubblicata dal Bascapè a Ingolstadt nel 1592 si legge:
"Ricevuti gli ordini sacri il card. Borromeo personam ex eo tempore
visus est longe dirersam induere", cioè a chi lo conosceva sembrò
fosse divenuto un altro. In una relazione mandata a Venezia nel marzo del
1565 l'ambasciatore Giacomo Soranzo scrive di cose viste con i suoi occhi:
"Il card. Borromeo di 27 anni è di non molto buona complessione,
essendosi macerato per gli studi, i digiuni, le vigilie e altre astinenze...
La vita sua è innocentissima e castissima. Dice messa ogni festa,
digiuna spessissimo, e in tutte le cose vive con tanta religione... che
si può con ragione dire, ch'egli solo faccia più profitto
nella Corte di Roma, che tutti i decreti del Concilio insieme; essendo cosa
molto rare volte veduta, che un nipote di Papa e a lui carissimo, in una
età tanto giovane, in una Corte piena di tante comodità, abbia
superato se stesso, la carne e il mondo". Le economie e le austerità
gli davano i mezzi per aiutare gli ospedali e altre opere in favore di sprovveduti
e di traviate.
Sembra che per qualche tempo il giovane cardinale abbia pensato di liberarsi
dai troppi negozi che lo legavano presso il papa, in quella corte romana
che non lo amava, e di ritirarsi a vita contemplativa magari nell'ordine
dei Camaldolesi. Lo dissuase il vescovo di Braga, Bartolomeo de Martyribus,
venuto a Roma da Trento nel settembre 1563. Questo sant'uomo aveva sostenuto
nel concilio che i ve scovi hanno il grave dovere di governare personalmente
le loro diocesi e di farvi stabile residenza. Al giovane Borromeo egli fece
capire che la funzione pastorale non è che un continuo esercizio
delle virtù più alte. Fu il de Martyribus a indurre il Borromeo
a non rinunciare all'arcivescovato di Milano, che il papa gli aveva affidato
"in commenda", e di cui Carlo aveva preso possesso tramite un
procuratore fin dal febbraio del 1560.
Concluso il concilio di Trento nel dicembre 1563, il Borromeo si persuase
che il compito più urgente e del Vaticano e anche suo personale era
l'attuazione dei decreti tridentini. Scrive il Giussano nella biografia
pubblicata a Roma nel 1610 che il cardinale Borromeo "intendeva molto
bene che niun rimedio più potente si ritroua per persuadere vna cosa
efficacemente, quanto che il vederla con gl'occhi proprij operare dalle
persone istesse che la commandano". Suo stretto dovere era quindi trasferirsi
da Roma alla sua sede di Milano. L'ostacolo maggiore alla partenza era il
vecchio papa, che voleva tenersi vicino il giovane e fidato cardinale nipote.
Provvedeva a Milano il Borromeo mandando vicari e vescovi e persone di fiducia.
Nel 1564 riuscì ad avere da padre Laynez trenta gesuiti e a mandarli
a Milano. Finalmente il 15 agosto 1565 il Borromeo, "con quella maggiore
instanza che ha potuto, ha chiesto licenza a Nostro Signore (cioè
al papa) di andare alla sua residenza a Milano, e l'ha, se ben con difficoltà,
ottenuta per due mesi": così scrive l'Avvisatore. Partì
da Roma la mattina presto del 1. settembre: sembra che avesse al suo seguito
150 persone, con settanta carriaggi. Grandi accoglienze per tutte le tappe
del viaggio. A Viterbo, a Bolsena, a Siena, a Firenze dove viene alloggiato
a Palazzo Vecchio. Si interessa delle necessità spirituali dei vari
luoghi. In una lettera di questi giorni informa Pio IV della necessità
di provvedere a far risiedere a Firenze un vescovo: che vi manca da quarant'anni.
Fastoso il suo ingresso a Bologna, come legato pontificio, vestito della
cappa magna rossa: vi si ferma tre giorni. Altra tappa all'abbazia di Nonantola,
della quale egli è commendatario. A Modena visita il card. Morone,
convalescente. Poi Correggio, e Parma, e il 20 settembre è a Piacenza.
Infine l'ultima tappa lo porta all'abbazia di Chiaravalle, dove si ferma
in raccoglimento e preghiera. Il solenne ingresso in Milano ha luogo il
pomeriggio di domenica 23 settembre.
La diocesi di Milano allora si estendeva anche al di là dei confini
attuali, nelle pievi delle valli di Blenio, di Leventina, della Riviera
e della Capriasca, e di vari luoghi della sponda occidentale del Verbano.
Un complesso di oltre 750 parrocchie, un grande numero di conventi, circa
5000 sacerdoti e religiosi, e 3400 religiose. In genere al clero fin troppo
numeroso mancava una adeguata preparazione, e d'altra parte i preti non
erano incoraggiati all'impegno della loro missione dai troppi cattivi esempi
della vita mondana dei prelati. In tanto deserto non mancavano alcune isole
di fervore, specialmente attorno alle nuove congregazioni religiose. A Milano
erano circa ottant'anni che gli arcivescovi non facevano residenza: quindi
parroci ignoranti e non pochi anche scostumati; balli anche nelle chiese;
frequenti pubblici adulteri; monasteri aperti troppo e a troppi. Si legge
che per ripulire e rendere abitabile la casa dell'arcivescovo si dovettero
portar via "cento carri di letame e rottami e ferrazze".
Carlo Borromeo volle iniziare la residenza nella sua diocesi con un esempio
concreto di disinteresse. Francesco Cusani, uno storico laico, sobrio e
preciso, nel primo volume della sua Storia di Milano, stampato nel 1861,
scrive: "Carlo cominciò con un luminoso esempio di disinteresse,
rinunciando a un annuo reddito di un milione e trecento cinquanta mila lire,
proveniente da feudi, benefici e pensioni a lui concedute dal papa. Ne convertì
una parte a benefizio del pubblico, impiegandola in erigere utili e grandiosi
edifici". Il Cusani attinge a due testimoni oculari, cioè al
Bascapè e al Giussano. Il Giussano dice: "Possedendo dodici
abbazie e molte pensioni, (s. Carlo) tutte le rinuntiò, alcune in
libera mano del Sommo Pontefice, altre le applicò a collegi e altri
luoghi pii... si sgravò del principato d'Oria che gli fruttava diecimila
ducati all'anno... mise in vendita le tre galere ereditate dal fratello
e convertì il prezzo in uso pio...". Vendette pure i preziosi
servizi da tavola portati da Roma: la vendita in parte si dovette fare a
Venezia, perché a Milano non vi furono abbastanza compratori. A conclusione
di tali rinunce il nuovo arcivescovo, dice il Giussano, "di scudi ottanta
mila d'entrata, c'haveva ogni anno, si ridusse a venti mila". In due
diversi luoghi della biografia il Bascapè parla di queste "immense
ricchezze donate da Carlo per motivo di perfezione", della rinuncia
a rendite abbondanti, dello spogliamento del palazzo e della splendida suppellettile,
dell'abbandono delle cariche e delle copiose entrate che gliene venivano,
dello "stupor grande" che provocò il ventisettenne arcivescovo
con quel suo gesto.
La domenica successiva a quella del suo ingresso, cioè il 30 settembre 1565 il Borromeo fece il suo primo discorso ai milanesi in Duomo e manifestò loro, come riferisce il Giussano, "il desiderio ardente, che sempre hebbe d'assistere alla cura loro, anteponendo la residenza della sua Chiesa a tutte le grandezze di Roma". Difatti nei diciannove anni del suo episcopato, dal 1565 al 1584, egli dedicò alla sua gente tutto il suo tempo, tutte le sue energie fino a consumarsi la vita. In questo breve riassunto non si può che accennare alle diverse forme della sua prodigiosa attività, alle numerose costruzioni di chiese e collegi e scuole, alle visite pastorali in tutti i paesi e villaggi della diocesi, alla imponente legislazione definita nei sei concili provinciali e negli undici sinodi diocesani. Tutte queste leggi vennero stampate a Milano nel 1582 nell'opera Acta Ecelesiae Mediolanensis: da Lione ne vennero ordinate cento copie; e l'arcivescovo di Toledo se ne fece mandare dieci copie. Il santo vescovo di Ginevra, Francesco di Sales, affermava che lo studio di quelle pagine era indispensabile per ogni vescovo. Possiamo almeno fermarci su due momenti salienti dell'attività dell'arcivescovo: l'anno della carestia e l'anno della peste.
Lo scarsissimo raccolto del 1569 causò estrema penuria di pane e di viveri. L'anno seguente un grande numero di indigenti si riversò dalla campagna in città. San Carlo impose al suo elemosiniere di allargare la mano, oltre le elargizioni ordinarie, per poter soccorrere la povera gente che soffriva la fame. A sue spese procurò ingenti acquisti di farina e di riso e di legumi. Ordinò che si tenessero caldaie piene di cibi cotti sotto i portici del palazzo arcivescovile, al quale non era impedito a nessuno l'ingresso. Più di tremila persone al giorno vennero nutrite dall'arcivescovo per tutto il tempo della carestia, che durò parecchi mesi. "Onde gli convenne - conclude il Giussano - fare molti debiti e anche ricercare egli stesso limosine da i ricchi e dalla nobiltà".
Momento alto nella vita del Borromeo furono gli anni 1576-77, gli anni di quella peste, che desolò, come scrive il Manzoni nel capitolo XXXI de I Promessi Sposi, "buona parte d'Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d'un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d'un uomo; perché a quest'uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de' mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que' guai, perché in tutti l'ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d'una calamità per tutti, far per quest'uomo come un'impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta". Cominciò a manifestarsi il contagio in Milano nell'agosto del 1576. Vivaci impressioni, se pur frammentarie, delle vicende di quei mesi, si possono leggere nelle lettere di un nobile genovese, Papirio Picedi, che viveva in quel tempo a Milano. A fine settembre si erano già contati in città seimila morti di peste. Personalità autorevoli si erano rifugiate in località lontane e sicure, tra esse il governatore spagnolo, con l'idea, s'intende, di poter meglio procurare possibili soccorsi. L'arcivescovo invece decise di rimanere. Sapeva bene il rischio e quindi nel settembre del 1576 con tutte le forme legali fece il testamento, nominando erede universale dei suoi beni personali l'Ospedale Maggiore di Milano. Il lazzaretto, per quanto grande, risultò presto insufficiente ad ospitare gli appestati, e allora si decise di costruire duecento capanne al di fuori di ciascuna porta della città. In ottobre venne ordinata una quarantena: case serrate, tutte le botteghe e gli opifici chiusi. Circa ottanta mila persone si trovarono così senza lavoro. Chiuse anche le chiese: l'arcivescovo fece fare altari all'aperto in varie piazze e crocicchi. Domandò e ottenne generosa collaborazione da schiere di uomini e di donne che si prestarono a visitare gli appestati e a soccorrerli. Nel processo informativo tenuto a Milano nel 1603 Ambros Fornerod (o Fornerio), un friburghese che fu più di vent'anni con san Carlo come suo domestico e anche interprete , dichiarò: "Mi smenticavo di dire che il Beato Carlo nel principio della peste vedendo che i poveri infetti pativano notabilmente et non erano serviti né anco da sacerdoti come bisognava mi mandò in Levantina, paese de Svizzeri, et condussi in qua 40 huomini, et circa 14 donne, et alcuni sacerdoti a spese sue proprie per servire alli detti infermi e purgar i panni per conservargli perché prima si abbracciavano".
Lui stesso l'arcivescovo usciva ogni giorno a visitare i malati e nelle capanne e nel lazzaretto per provvedere ai possibili aiuti. Riferisce il Bascapè che in quel continuo rischio di morte c'era pure chi rubava a man salva e chi si abbandonava a sfrenate lussurie. Per assicurare qualche ordine l'arcivescovo persuase le autorità civili ad affidare la direzione del lazzaretto ai frati cappuccini. Nei mesi dell'inverno 1576-77 fu necessario provvedere anche ai vestiti per migliaia di malati. Per fare vesti e mantelli san Carlo adoperò le tappezzerie di casa sua: distribuì 800 braccia di panno rosso e 600 braccia di panno paonazzo. A supplicare Iddio che facesse cessare il flagello fece fare anche non poche processioni. Per le quali certamente il contagio avrà avuto incremento, e il santo ebbe rimproveri da una gran quantità di storici d'allora e di poi. Nel settembre del 1577 la peste poteva dirsi finita in città, mentre lunghi strascichi si ebbero nel contado. Al curato di Luino mandò somme cospicue perché provvedesse a soccorrere gli appestati di Maccagno. Ancora nel 1580 san Carlo andò a visitare gli appestati di Brissago: il Possevino, che l'accompagnava in quel viaggio, nella breve biografia stampata a Roma nel 1591, scrive che l'arcivescovo entrò nelle case di ciascuno degli appestati "dando a ciascuno secondo il bisogno loro a chi dui, a chi tre, a chi più a chi meno scudi d'oro".
Passata la peste, Milano risorse in fretta con i suoi traffici. Già
nel 1581, passando di qui, il signore di Montaigne scrive nel suo giornale:
"Milano è la città più popolata d'Italia... le
mancano i palazzi di Roma, Napoli, Genova, Firenze, ma di grandezza le vince
tutte, e di calca di gente arriva a Venezia". Però i sopravissuti
e della città e della campagna non dimenticarono l'altruismo eroico
dell'arcivescovo in quei tragici anni della grande morìa. Per la
sua azione religiosa l'arcivescovo aveva da affrontare l'ignoranza e il
malcostume del clero, poi l'ingerenza soffocante delle autorità civili
nelle cose di chiesa, infine l'eresia che minacciava dai paesi del nord.
La pace di Augusta del 1555 tra protestanti e cattolici aveva sanzionato
il principio: cuius regio, eius et religio: la gente deve seguire la religione
del suo principe. La libertà religiosa era riconosciuta soltanto
ai principi, non ai cittadini. Nel secolo XVI base del diritto pubblico
era considerato il diritto del capo dello Stato di poter imporre la propria
religione ai suoi sudditi.
Mentre la gran parte della diocesi milanese dipendeva dal cattolico re di Spagna e quindi l'eresia non era di solito un problema, invece le pievi delle valli svizzere erano terra di confine a contatto con i protestanti delle varie denominazioni. C'era poi nelle autorità dei cantoni protestanti e anche dei cantoni cattolici la decisa volontà di continuare nella loro gelosa tradizione di autonomia, cioè di non permettere ingerenze di autorità ecclesiastiche anche negli affari riguardanti le chiese.
Per l'esperienza di parecchi anni nei più alti uffici della curia
romana san Carlo conosceva bene i molti guasti provocati dai non pochi apostati
italiani anche nelle valli alpine. Egli per esempio aveva partecipato alle
segrete trattative tra i delegati romani e il vescovo Vergerio: a Milano
tutti sapevano delle sue violente dissacrazioni nella chiesa di Casaccia
sulle pendici del Maloja nel maggio del 1551. Le trattative le fece troncare
papa Pio IV. Mentre a Zurigo e a Berna i sudditi dovevano per forza assumere
la religione prescritta dal governo, nei Grigioni invece la decisione stava
nelle mani delle singole comunità. E tutti vedevano quanto poco evangelici
erano spesso i motivi che avevano causato la conversione "al vangelo"
di parecchie comunità nelle valli in Grisonibus.
Per tutte queste esperienze e ragioni il Borromeo, dopo aver visitato piu'
volte le valli ticinesi e dopo la grande ricognizione del 1570 anche nella
Svizzera interna, mando' a Roma una "informazione", chiedendo
che la Santa Sede pensasse a stabilire una nunziatura nella Svizzera. Grandi
lodi fa il Borromeo degli Svizzeri in questo scritto: "Il nucleo del
popolo è buono e valente... sono probi nel commercio... si viaggia
per strade senza pericolo di rapine... per quanto danaro si offra non si
trova nessuno disposto a violare le feste e a portare il bagaglio a un viandante
in tali giomi... sono talmente attaccati alla religione cattolica che volontieri
comincerebbero una nuova guerra contro i cantoni protestanti per purgarli
dall'eresia". Ha trovato uomini di provata capacità politica
e militare, forniti di grandi ricchezze e di alto prestigio in patria e
fuori che si dedicano agli interessi cattolici con impegno ammirevole e
sacrificio personale, come ad esempio Ludovico Pfyffer di Lucerna, Melchior
Lussy di Untenvalden, Hans Zumbrunnen di Altdorf, Walter Roll di Uri, e
altri. Aveva constatato anche san Carlo quanto era vera l'affermazione del
Lippomano, vescovo di Verona dal 1548 al 1558 e poi di Bergamo, che "l'heresia
comincia dal paternostro et finisce nel archibuso". Difatti a Ginevra
in soli quattro anni dal 1542 al 1546 erano state condannate a morte sessanta
persone per divergenze ideologiche.
Negli anni di san Pio V (1566-1572), che sono pure anni di san Carlo, l'intolleranza e in campo protestante e in campo cattolico raggiunge vertici da crociata. Nei due campi non si cerca che la distruzione dell'altra parte. In Francia dopo le devastazioni degli ugonotti che a Montpellier uccidono 150 preti e in varie parti distruggono diecimila chiese, la vendetta dei cattolici esplode nell'agosto 1572 nella notte di san Bartolomeo, che vede uccisi 4000 ugonotti nella sola Parigi. In Inghilterra negli anni di Maria la Cattolica (1553-1558) ci furono 300 condanne a morte per causa di religione. Sempre per tale causa durante il regno di Elisabetta (1558-1603) vennero uccisi 124 preti e 61 laici cattolici. San Pietro Canisio predicando a Innsbruck nell'agosto 1571 sostiene la legittimità della pena di morte per quelli che vogliono abolire la Messa e disprezzano e rinnegano la Chiesa. Due mesi prima a Coira i settanta ministri del sinodo grigionese danno il loro voto alla tesi di Tomaso Egli, discepolo di Bullinger, che i "papisti" devono essere espulsi, che si devono estirpare, anche con la pena di morte se necessario.
é su questo tragico sfondo che si devono valutare le cinque visite di san Carlo nelle valli svizzere: nelle altre pievi le sue visite furono una o due al massimo. Si spiega anche il suo rigore nel pretendere l'attuazione dei decreti tridentini. Sulle speciali premure di san Carlo per gli Svizzeri si sofferma anche san Francesco di Sales in una lettera alla Chantal del 14 ottobre 1604: "Cet esprit si rigoureux, mangeant souvent avec les Suisses ses voisins, pour les gaigner à mieux faire, il ne faisoit nulle difficulté de faire des carroux ou brindes avec eux à chaque repas, outre ce qu'il avait beu pour sa soif. Voilà un trait de sainte liberté en l'homme le plus rigoureux de cet âge".
Per i chierici delle tre valli ticinesi il Borromeo istitu" un seminario
minore a Pollegio, mentre per la preparazione teologica fondò nel
1579 il Collegio Elvetico in Milano.
Nella diocesi milanese il Borromeo trovava dovunque una montagna di abusi
e di disordini. Cominciò a far ripristinare nei monasteri la clausura
e le grate; volle che si finisse di far baldorie e traffici nelle chiese;
ritenne suo obbligo richiamare preti e parroci all'osservanza del celibato.
Ad evitare tresche almeno nelle chiese, san Carlo comandò di impiantare
steccati fissi nelle navate per tener separate le donne dagli uomini. Egli
poi riteneva come un presupposto di una efficiente attività pastorale
l'esercizio illimitato della giurisdizione vescovile e sul clero e sui laici.
Era persuaso di avere il diritto di far chiudere nelle sue prigioni non
soltanto preti e suore, ma pure i laici condannati dai tribunali del vescovo.
Proteste clamorose quindi da parte delle autorità civili. Celebre
l'episodio del bargello nel 1567. Un tale maestro Benedetto denuncia all'arcivescovo
che sua moglie se l'è presa con sè il signor Castiglione,
e gli chiede che intervenga a punire il colpevole. Il bargello arcivescovile
ordina quindi di arrestare il concubinario Castiglione. Si muove l'autorità
civile, e il capitano di giustizia interviene a punire il bargello dell'arcivescovo.
L'arcivescovo reagisce con scomuniche. Ricorsi a Roma da entrambe le parti,
mentre la vicenda si trascina per mesi e mesi.
Naturalmente i severi provvedimenti del Borromeo sollevarono di continuo
forti opposizioni. Citiamo qualche caso. L'arcivescovo pensava di avere
diritto e dovere di visitare anche la chiesa di santa Maria della Scala,
nonostante i privilegi reali. I canonici scalensi si opposero con violenza
all'ingresso del cardinale il 30 agosto 1569. Quindi scomuniche reciproche
e una lunga vertenza. Gli Umiliati con i loro opifici e commerci erano divenuti
una potenza finanziaria: nella sola città di Milano possedevano una
quindicina di case. I religiosi, assai pochi, avevano a disposizione rendite
annuali per 50 mila scudi, cioè parecchi milioni di franchi; e i
loro modi di vita non erano certamente conformi al voto di povertà.
Incaricato da Roma di provvedere a una riforma dell'ordine degli Umiliati,
san Carlo riunì i capi; propose e decretò nuovi regolamenti
poichè non ubbidivano, destituì i dirigenti. Venne allora
ordita una congiura. La sera del 26 ottobre 1569 nella cappella del palazzo
arcivescovile, mentre l'arcivescovo era in preghiera, un tale gli sparò
un'archibugiata. Il colpo, se pure a distanza ravvicinata, lasciò
illeso il cardinale. Ma quell'archibugiata ammazzò l'ordine degli
Umiliati. L'enorme impressione sollevata e a Madrid e a Roma da quell'attentato
determinò papa Pio V alla decisione di sopprimere l'ordine, non soltanto
di riformarlo. A Milano un rapido processo civile condannò i quattro
maggiori responsabili e colpevoli della congiura: essi vennero giustiziati
a Milano il 28 luglio 1570. La soppressione del ricchissimo ordine rendeva
disponibili i suoi beni. Da parte di molti ci fu allora un vero assalto
ai possedimenti degli Umiliati.
San Carlo mandò lo Speciano a Roma a brigare perchè qualcosa
finisse anche a bene della chiesa di Milano. Potè così l'arcivescovo
dare Brera ai Gesuiti, e avere poi i mezzi per ricostruire il palazzo arcivescovile
con nuove stalle e più ampie carceri; edificare il seminario di corso
Venezia, il Collegio Elvetico, il collegio dei nobili, la chiesa di san
Fedele, e ancora altre costruzioni.
Il Borromeo, per la sua educazione legalistica aveva una concezione quasi
medievale dei rapporti tra stato e chiesa. Ebbe quindi urti continui con
i governatori spagnoli. Nel 1573 scomunicò il Requesens, che aveva
pubblicamente trasgredito le disposizioni arcivescovili sui balli nei giorni
festivi. La vertenza, finita a Roma, non venne risolta, anche perchè
il Requesens ebbe un incarico più alto e si trasferì nei Paesi
Bassi. Più clamoroso il conflitto con il governatore Ayamonte, il
quale nel febbraio 1579 mandò armati in piazza a disturbare con tornei
e squilli di tromba le celebrazioni dell'arcivescovo in Duomo. Venivano
diffusi e appesi ai muri opuscoli e stampati con violente critiche all'arcivescovo:
che era esagerato nelle sue pretese, che molti lo odiavano, che fomentava
ribellioni e disordini. Anche negli ambienti romani divenivano sempre più
forti le riserve per i suoi metodi. Il governatore Ayamonte sollecitava
apertamente che il Borromeo venisse promosso, cioè allontanato da
Milano. Voci diffuse insinuavano che anche le istanze supreme di Madrid
suggerivano a Roma di provvedere in quel senso e che papa Gregorio XIII
non era affatto convinto che il cardinale di Milano avesse del tutto ragione
nelle sue esigenze. Anche il consiglio dei decurioni di Milano deliberò
di mandare a Roma alcuni patrizi milanesi con credenziali per il papa e
per alcuni cardinali, a chiedere che non si permettesse "che il popolo
di Milano senza suo demerito sia trattato con leggi più aspre degli
altri cristiani".
La grave crisi della sua posizione era avvertita anche dall'arcivescovo,
il quale nell'estate del 1579 decise di recarsi lui stesso a Roma a difendersi.
Rimase a Roma più di quattro mesi, dall'agosto 1579 al gennaio 1580.
Nel viaggio di andata si fermò quindici giorni nell'eremo di Camaldoli
"in continui digiuni, orationi, e contemplationi, trattando con Dio
la causa della Chiesa sua". Altre notti di preghiera passò alla
Verna. Fece infine un pellegrinaggio alla santa casa di Loreto. Bastano
questi particolari a testimoniare le lunghe riflessioni che dovette fare
allora san Carlo sui metodi suoi e sulle ragioni dei suoi oppositori, e
a Milano e a Roma.
Intanto la delegazione delle autorità milanesi esponeva in varie
sedi romane le lamentele e invocava rimedi alle "perturbazioni"
causate dai provvedimenti del santo arcivescovo. In queste requisitorie
presentate in quell'occasione dai rappresentanti dei decurioni milanesi
i rilievi sull'eccessivo rigore dei tribunali arcivescovili di Milano la
dicono lunga: "Si procede con tormenti (cioè torture) exquisiti,
dalli quali molti ne sono stati storpiati e talvolta ancora morti".
Si capisce che, come il cardinale Morone nel Cinquecento, così anche
oggi storici cattolici, come Hubert Jedin, non risparmiano a san Carlo l'accusa
di eccessivo rigorismo. Nei quattro mesi della sua permanenza a Roma il
Borromeo riuscì a cambiare la situazione in suo favore. Papa Gregorio
XIII gli suggerì certamente temperamenti e concessioni.
Nel novembre del 1583 san Carlo visitò la Valle Mesolcina. Lui stesso
in una lettera del 9 dicembre 1583 (pubblicata nel 1962 da Rinaldo Boldini)
riferì all'amico card. Paleotti i risultati della missione: trovò
una situazione miserabile, sacerdoti senza disciplina... licentiosi a tutto...
taluni forestieri e vagabondi... riuscì a far tornare ai loro conventi
non pochi apostati... accenna alle provvidenze di persone e di scuole che
è riuscito a introdurre. Infine scrive: "Si è atteso
anche a purgare la Valle dalle streghe, la quale era quasi tutta infettata
di questa peste con perditione di molte anime, tra le quali molte si sono
ricevute misericordiosamente a penitenza colla abiurazione, alcune date
alla corte secolare come impenitenti, con pubblica executione della Justitia".
Tra i non pochi casi di esecuzioni collettive di streghe (in Belgio,
in Francia, 200 nel Vallese, ecc.) questa della Mesolcina è forse
la meglio documentata. Occorre ricordare che tutta la letteratura e la scienza
giuridica del Cinquecento presentava la stregoneria come una realtà.
Gli statuti civili della Mesolcina e della Leventina, come le leggi degli
altri paesi d'Europa, stabilivano il rogo per le streghe; così pure
la Nemesis carolina, cioè il codice criminale promulgato da Carlo
V nel 1532. Degno di nota il fatto che gli incaricati del Borromeo nel 1583
tra cento circa persone accusate di stregoneria finirono a condannarne soltanto
dieci. A chi voglia farsi un giudizio sereno su questa triste tragedia si
può consigliare di leggere e di rileggere le ultime sei pagine del
capitolo XXXII de I Promessi Sposi.
L'ultima fatica di san Carlo fu il viaggio ad Ascona il 30 ottobre 1584.
Il giorno precedente era sceso dal sacro monte di Varallo. La sera stessa
arrivato ad Arona si imbarcò. Arrivò a Cannobio all'alba di
martedì 30 e si fermò a celebrare la Messa. Ripresa la navigazio
ne giunse ad Ascona verso le nove. Nella chies a parrocchiale davanti alla
popolazione e al consiglio comunale presiedette alla cerimonia dell'atto
notarile di fondazione del collegio Papio. Durante la lettura gli viene
un nuovo attacco di febbre. Nel pomeriggio risale su la barca. Si ferma
a dormire a Cannobio nella casa degli Omacini che sta presso la riva del
lago. La mattina del 31, mercoledì, riparte per Arona. Celebra l'ultima
sua Messa la mattina del 1. novembre giovedì ad Arona. Ripresa la
febbre, la mattina del 2 novembre, venerdì, viene portato sulla barca
che lo conduce lungo il Ticino e il Naviglio a Milano, dove arriva a sera.
Alle ore 21.40 del sabato 3 novembre muore. Aveva 46 anni e 21 giorni. La
notte tra martedì e mercoledì i due cappuccini che l'assistevano
nel confortarlo gli dissero anche che doveva attenuare le sue austerità.
Rispose loro: "La candela per far luce deve consumarsi". Carlo
Borromeo per la sua gente aveva consumata la vita.