"I figli sono la pupilla dei nostri occhi
Che
ne sarà di noi se non ci prendiamo cura dei nostri occhi? Come potremo
andare avanti?". Così Papa Francesco all'apertura della XXVIII
Giornata Mondiale della Gioventù ha illuminato ed esortato tutti
alla custodia della vita, ricordando che generare ha in sé il germe
del futuro. Il figlio si protende verso il domani fin dal grembo materno,
accompagnato dalla scelta provvida e consapevole di un uomo e di una donna
che si fanno collaboratori del Creatore. La nascita spalanca l'orizzonte
verso passi ulteriori che disegneranno il suo futuro, quello dei suoi genitori
e della società che lo circonda, nella quale egli è chiamato
ad offrire un contributo originale. Ogni figlio è volto del "Signore
amante della vita", dono per la famiglia e per la società. Generare
la vita è generare il futuro anche e soprattutto oggi, nel tempo
della crisi; da essa si può uscire mettendo i genitori nella condizione
di realizzare le loro scelte e i loro progetti.
La società tutta è chiamata a interrogarsi e a decidere quale
modello di civiltà e quale cultura intende promuovere, a cominciare
da quella palestra decisiva per le nuove generazioni che è la scuola.
Per porre i mattoni del futuro siamo sollecitati ad andare verso le periferie
esistenziali della società, sostenendo donne, uomini e comunità
che si impegnino, come afferma Papa Francesco, per un'autentica "cultura
dell'incontro". Educando al dialogo tra le generazioni potremo unire
in modo fecondo la speranza e le fatiche dei giovani con la saggezza, l'esperienza
di vita e la tenacia degli anziani.
La cultura dell'incontro è indispensabile per coltivare il valore
della vita in tutte le sue fasi: dal concepimento alla nascita, educando
e rigenerando di giorno in giorno, accompagnando la crescita verso l'età
adulta e anziana fino al suo naturale termine, e superare così la
cultura dello "scarto". Si tratta di accogliere con stupore la
vita, il mistero che la abita, la sua forza sorgiva, come realtà
che sorregge tutte le altre, che è data e si impone da sé
e pertanto non può essere soggetta all'arbitrio dell'uomo.
L'alleanza per la vita è capace di suscitare ancora autentico progresso
per la nostra società, anche da un punto di vista materiale. La nostra
società ha bisogno oggi di solidarietà rinnovata, di uomini
e donne che la abitino con responsabilità e siano messi in condizione
di svolgere il loro compito di padri e madri, impegnati a superare l'attuale
crisi demografica e, con essa, tutte le forme di esclusione. Una esclusione
che tocca in particolare chi è ammalato e anziano, magari con il
ricorso a forme mascherate di eutanasia. Vengono meno così il senso
dell'umano e la capacità del farsi carico che stanno a fondamento
della società. "È il custodire la gente, l'aver cura
di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi,
di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia
del nostro cuore. È l'aver cura l'uno dell'altro nella famiglia:
i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono
cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori".
Generare futuro è tenere ben ferma e alta questa relazione di amore
e di sostegno, indispensabile per prospettare una comunità umana
ancora unita e in crescita, consapevoli che "un popolo che non si prende
cura degli anziani e dei bambini e dei giovani non ha futuro, perché
maltratta la memoria e la promessa" (genn. 2014)
Si celebra l'11 febbraio la Giornata del Malato nell'anniversario
dell'apparizione della Madonna a Lourdes e viene in mente, qui, una figura
della Bibbia: quella di Giobbe che - diciamo così - ne ha passate
di tutti i colori. La sentiamo vicina questa figura: chi di noi non ha provato
l'esperienza della malattia, propria o di qualche persona cara? Chi non
ha mai reagito di fronte ad una malattia improvvisa e che, fin dall'inizio,
non lascia scampo? Giobbe lo sentiamo vicino anche quando se la prende con
il Creatore e lo investe con tutta la drammaticità di quanto gli
sta capitando. Fratello in umanità, quindi, Giobbe, ma c'è
un altro fratello in umanità che può farci entrare in una
diversa dimensione anche di fronte al dolore e alla malattia: il Signore
Gesù. Non solo per la "brutta" fine che ha fatto, densa
di sofferenza, ma anche per la sua reazione che mette di fronte ad un interrogativo
ancora più profondo, lui (narrano i Vangeli) che, insieme alla predicazione,
ha fatto della liberazione dalle malattie e infermità la principale
attività della sua vita pubblica.
Se le malattie sono un segno dell'azione del male nel mondo e nell'uomo
e le guarigioni dimostrano che il Regno di Dio è vicino, concretamente
noi che ci ammaliamo, dove ci collochiamo? Ci collochiamo nella stessa vittoria
di Gesù che ha oltrepassato la vita sua e di tutti con la sofferenza,
la morte e la grande potenza della resurrezione. La medicina ha fatto passi
da gigante, riesce ad alleviare la sofferenza e, spesso, a vincerla quando
sperimentiamo di essere persone che da un momento all'altro possono venire
investite dalla malattia e toccare con mano cosa significhi essere deboli,
non poter più badare a se stessi ma doversi consegnare all'aiuto
degli altri.
Però è possibile uno scarto che può capovolgere non
l'esito della malattia ma la sua realtà esistenziale quotidiana,
come ha insegnato il Papa: "potremmo dire, con un paradosso, che la
malattia può essere un momento salutare in cui si può sperimentare
l'attenzione degli altri e donare attenzione agli altri". Stare male,
magari soffrire, ma sapersi dimenticare non per stoicismo o impassibilità
sovrumana, ma perché l'altro, quello che mi sta vicino, ha bisogno
di me o, quanto meno, ha bisogno di vedere in me una certezza che cambia
il segno della vita perché sconfigge il male stesso: l'amore di Dio
che si è manifestato in Gesù.
Qualunque cosa accada, qualsiasi sia la portata della sofferenza che piomba
sulla vita, nulla potrà intaccare la fede, la relazione profonda
con il Creatore che è Padre: relazione, significa che i due si guardano,
si ascoltano che la persona umana ha imparato a respirare tenendo il cuore
immerso nell'amore di Dio. Produce grande, profonda impressione entrare
in contatto con i testimoni della sofferenza che, proprio perché
immersi nel dolore fisico, si dilatano fuori di loro e diventano portatori
della vittoria sul male che li consuma spargendo intorno a sé luce
e fiducia. È l'altra dimensione della vita, quella vera, che a Lourdes
risplende in tutta la sua pienezza. (febb. 2014)
Nel Messaggio per la Giornata mondiale della Pace 2013, che si presenta
come un compendio della dottrina sociale della Chiesa, Benedetto XVI invita
a vivere le beatitudini evangeliche per costruire una società "fondata
sulla verità, sulla libertà, sull'amore e sulla giustizia".
"Coloro che si affidano a Dio e alle sue promesse - annota - appaiono
spesso agli occhi del mondo ingenui o lontani dalla realtà".
Ma, al contrario, sono quelli che fanno a meno di Dio che si illudono di
costruire la pace con le loro strategie umane. Senza Dio, infatti, prevalgono
alla fine sempre i "criteri di potere o di profitto". Per questo,
rileva il Papa, "precondizione della pace è lo smantellamento
della dittatura del relativismo e dell'assunto di una morale totalmente
autonoma, che preclude il riconoscimento dell'imprescindibile legge morale
naturale scritta da Dio nella coscienza di ogni uomo". Solo in questo
modo la pace diventa possibile: non è più "un sogno",
né "un'utopia", né, tantomeno, una "falsa pace".
La vera pace è "dono di Dio e opera dell'uomo". È
pace con Dio, pace con se stessi, pace con il prossimo e con tutto il creato.
Il Papa propone un "nuovo modello economico" che rimpiazzi "quello
prevalso negli ultimi decenni" che teorizza "la ricerca della
massimizzazione del profitto e del consumo, in un'ottica individualistica
ed egoistica, intesa a valutare le persone solo per la loro capacità
di rispondere alle esigenze della competitività". Si tratta
di un "nuovo modello di sviluppo" che si basi sulla fraternità
e la condivisione, sulla gratuità e la logica del dono: occorre "sentire
come propri i bisogni e le esigenze altrui, fare partecipi gli altri dei
propri beni", è "andare al di là del proprio interesse".
Un modello possibile solo se si riconosce "di essere in Dio, un'unica
famiglia umana".
Tra i diritti sociali "oggi maggiormente minacciati vi è il
diritto al lavoro", scrive Benedetto XVI. Per poi denunciare che "sempre
più il lavoro e il giusto riconoscimento dello statuto giuridico
dei lavoratori non vengono adeguatamente valorizzati", con la motivazione
che "lo sviluppo economico dipenderebbe soprattutto dalla piena libertà
dei mercati. Il lavoro viene considerato così una variabile dipendente
dei meccanismi economici e finanziari". Il Papa rovescia questa visione
affermando che occorre "perseguire quale priorità l'obiettivo
dell'accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti" e per questo
sono necessarie "coraggiose e nuove politiche del lavoro per tutti",
in particolare per dare un futuro alle nuove generazioni.
Altro richiamo forte di Benedetto XVI è il rispetto della vita dal
concepimento sino alla sua fine naturale: "Chi vuole la pace - afferma
- non può tollerare attentati e delitti contro la vita. Coloro che
non apprezzano a sufficienza il valore della vita umana" e sostengono
la liberalizzazione dell'aborto, "forse non si rendono conto"
che in tal modo cercano "una pace illusoria". (genn. 2013)
Oro, incenso e mirra: sono i doni dei Re Magi al piccolo Gesù.
Così ci ha ricordato il Vangelo nella Solennità dell'Epifania.
Tradizionalmente, l'oro indica la regalità di Gesù, l'incenso
la dimensione sacerdotale, la mirra - usata nelle sepolture - anticipa il
mistero della morte e resurrezione. Ma oro, incenso e mirra possono aiutare
a riflettere sui bisogni dell'oggi, sui "doni" da chiedere per
la nostra società, all'inizio di un nuovo anno che si annuncia tra
molte difficoltà, ma che cerca anche luci di speranza. Abbiamo bisogno
di oro, che è anche il simbolo del benessere, delle risorse.
È facile l'associazione tra l'oro e il denaro, così desiderato
in questo tempo di crisi. In realtà, la risorsa dell'oro è
più profonda: oro è fiducia, impegno personale, sguardo positivo
sul futuro. Lo sguardo dritto, quello del re, ma anche quello dei giovani
, pieni di entusiasmo. Viene alla mente un canto scout che associa il colore
dell'oro fino, alla gioia che brilla nell'occhio di ogni "fratellino".
Per il 2012 potremmo chiedere questo oro, che è condizione per affrontare
con fiducia e serietà le sfide impegnative di questo momento.
I Magi hanno portato anche l'incenso: si sente il profumo del sacro. L'incenso
richiama il mondo religioso, la preghiera. E sembra fuori del tempo oggi,
in una società dove l'individuo è considerato fine a se stesso
una società nella quale le religioni vengono tirate in ballo in occasione
di attentati terroristici come pedine per conquistare potere a livello mondiale
e sono meno considerate come elementi della vita personale, peraltro capaci
di influenzare i comportamenti e la vita. Ebbene, c'è bisogno ancora
oggi delle religioni e della religiosità: resta prezioso il rimando
ad un "Altro" al quale l'umanità e il mondo possono riferirsi.
É prezioso a livello personale e comunitario - e lo è per
tutti, credenti e non credenti - come un invito a mettere in discussione
se stessi e le prospettive di una umanità che non di rado si rivelano
disumane.
La mirra è forse il dono più inquietante: si usava per i morti
e oggi la morte viene rimossa - paradossalmente - anche attraverso la sua
sovraesposizione: ne abbiamo gli occhi così pieni da non vederla
più, da banalizzarla così da risultarne quasi indifferenti.
La mirra rimanda alla cura, ad una attività "inutile",
come quella dell'unzione dei corpi dei defunti. Ebbene, oggi è necessario
un richiamo alla cura e alla compassione, alla condivisione di una realtà
che accomuna ogni persona. Il problema è quello di avvertire che
siamo tutti fratelli, la possibilità di condividere le sofferenze
degli altri, il rapporto che esiste tra quello che accade vicino e lontano
da noi, la responsabilità personale e collettiva.. Di più,
il primato di ogni persona umana rispetto ad ogni altra cosa (il successo,
le ricchezze, il benessere individuale).
Oro, incenso e mirra. I doni dei Magi aprono una finestra interessante sul
mondo di oggi: una provocazione da raccogliere. (genn. 2013)
Si è concluso il Sinodo dei Vescovi che ha avuto come tema la
nuova evangelizzazione che è entrata in quest'aula austera come una
viandante che, dopo un lungo cammino, ritorna per qualche tempo nella sua
casa certa di ritrovare un affetto che non viene meno con il tempo. Si è
seduta, la nuova evangelizzazione, accanto al Papa, ai padri sinodali, ai
delegati fraterni, agli uditori e alle auditrici, a tutti coloro che sono
stati presenti in aula.
Ha ascoltato con attenzione ciò che di lei si è detto nella
grande assemblea così come in mille altri luoghi sparsi per il mondo
che un filo invisibile ha unito all'aula sinodale. Ha preso nota di tutto
con il volto talvolta pensoso e talvolta preoccupato. Però sempre
sereno perché sapeva, la nuova evangelizzazione, che tutti il quell'aula
e in mille altri luoghi vogliono camminare con lei sulle strade del mondo.
E lei, ascoltando, ha pensato al passo necessario per questo cammino, il
passo lieve e sicuro del messaggero che conosce la bellezza della notizia
che gli è stata affidata e non vede l'ora di comunicarla.
Ha saputo e sa che l'attende anche l'indifferenza: non la teme, l'aveva
già incontrata sulla piazza del mercato di cui si narra nel Vangelo,
quando al suono del suo zufolo nessuno voleva danzare, nessuno voleva ascoltare
il suo messaggio. Non si era fermata allora, non si fermerà oggi
perché, andando oltre le chiacchiere e il frastuono, leggeva allora
e legge oggi in ogni persona umana il desiderio insopprimibile di una felicità
che non passa.
Ecco perché la nuova evangelizzazione ama stare con coloro che oggi
cercano questa felicità, coloro che la mentalità corrente
ritiene sognatori, inconcludenti e perfino folli. Ama stare soprattutto
con gli umili e coi semplici, con quanti si lascino sorprendere da una Presenza
per essere poi pronti a sorprendere altri, comunicando questa Presenza con
il linguaggio della loro vita.
Non ricorre ad effetti speciali perché sa che nella ricerca di ciò
che rende bella e buona la vita non servono accorgimenti artificiali: e
così si esprime con pensieri, parole e gesti semplici e trasparenti.
Forse per questo motivo la nuova evangelizzazione preferisce un'altra definizione
di se stessa perché - senza volerlo - quella dei discorsi e dei documenti
l'appesantisce un po', la tiene un po' distante dal parlare della gente
e dal linguaggio familiare.
Comunque non è preoccupata per una piccola questione formale, perché
sa che parlando di lei nessuno la riduce ad una astrattezza, ad una teoria,
ad un concetto. Sa che con quella definizione un po' tecnica si intende
un lieto annuncio nell'oggi dell'uomo, un annuncio che è Pensiero,
Parola, Volto. Sa che in questa rinnovata comunicazione può contare
soprattutto sulla piccolezza, sulla fragilità delle famiglie e delle
comunità cristiane, sulla fatica e sulla speranza di un popolo in
cammino nell'asprezza della cronaca e della storia.
Sabato 11 ottobre la nuova evangelizzazione era con la fiaccola accesa in
piazza S. Pietro, era piena di gioia nel riascoltare dopo 50 anni le parole
di Papa Giovanni: "tornando a casa, troverete i bambini. Date una carezza
ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del Papa". La
nuova evangelizzazione non può vivere senza affetto e ora, dall'aula
sinodale, torna nei mille luoghi sparsi nel mondo, torna con il suo zufolo
sulla piazza del mercato.
(dicembre 2012)
Adesso è tra le braccia del suo Signore. Torinese, classe 1927,
Gesuita dal 1944 e sacerdote dal 1952, insigne biblista, il cardinal Martini
è stato uno dei giganti della Chiesa cattolica uscita dal Concilio
Vaticano II. Con buona pace di chi lo ha criticato o detestato nella sua
lunga vita, Martini era stato scelto nel 1979 da Giovanni Paolo II come
guida della Chiesa cattolica di Milano. Una nomina che lo aveva colto di
sorpresa, come ha raccontato nel libro "Il Vescovo", una sorta
di manualetto deontologico per future eccellenze (e non solo), uscito quest'anno.
Col suo solito garbo e la sua ironia da gentiluomo piemontese, il cardinale
raccontava l'avvio dell'episcopato all'ombra della Madunina, la necessità
di uscire tra la gente ed evitare di aspettare che fosse la gente ad andare
a trovarlo (anche perché, spiegava, alla fine in un vescovado si
sarebbero viste sempre le solite facce, e non necessariamente gradite);
ma anche quella di trovare tempo per se stesso e "fuggire", trovare
un momento di riposo per fare il punto della situazione e ricaricare le
pile per la diocesi più grande della Chiesa cattolica. Che solo nel
secolo scorso ha dato due Papi: Pio XI e Paolo VI. Ne "Il Vescovo",
Martini ha avuto modo di scrivere: "Ricordo che nella mia fanciullezza
consideravo il vescovo qualcuno che stava come in una nicchia nella chiesa
per ricevere l'omaggio dei fedeli. In questo scritto vorrei tirarlo giù
da quella nicchia e vederlo a contatto con la gente, così come realmente
avviene. Intendo esprimere qualcosa che dia una immagine di lui meno vaporosa
e ieratica, più viva e senza false pretese". Meno vaporoso e
ieratico è stato anche nei colloqui sulla fede e la scienza, sulla
fede e la società di oggi, tenuti con il senatore Ignazio Marino
e che sono usciti nel libro "Credere e conoscere" (Einaudi). Quest'intellettuale
timido, apparentemente freddo (e che invece - davanti ad un piccolo uditorio
- sprigionava il calore della fede, come è accaduto a chi ha potuto
incontrarlo privatamente o in incontri semipubblici), decise di uscire dalle
biblioteche e di andare a trovare le persone. Così rispose Karol
Wojtyla a una devota milanese che gli chiedeva un vescovo santo in sostituzione
del card. Giovanni Colombo, dimessosi nel 1979: il Papa polacco spalancò
i suoi occhi azzurri e rispose sorridente: "Ne parlerò con lo
Spirito Santo". La conversazione si concluse, evidentemente, col nome
di Martini.
Anche la nostra Comunità ricorda con affetto il card. Martini in
occasione della Visita pastorale del gennaio 1997 a Porto e a Domo. (ottobre
2012)
Da qualche anno ho preso l'abitudine di "rubare" un'ora al programma
e di concedermi di salutare per bene i miei ragazzi che finiscono la classe
quinta. Ci siamo incontrati per 5 anni, alcuni anche 6 o 7, per più
di 150 ore siamo stati insieme a ci siamo contagiati inevitabilmente l'uno
con l'altro. Ci siamo confrontati, ascoltati, a volte accapigliati, ogni
tanto sopportati. Ci siamo anche odiati certo, ma credo davvero che molte
più volte ci siamo amati, accettandoci così come siamo. E
questo ci ha fatto cambiare. Ci ha fatto crescere. Loro sicuramente, ma
anche io. E ora che le nostre strade si dividono, come ogni vero addio,
sentiamo nostalgia e ci auguriamo di poterci ritrovare più avanti,
per ridirci che quello che è successo in questi 5 anni ha lasciato
un segno, ha portato frutto.
Già l'anno scorso, ma soprattutto quest'anno, ho sentito che qualcosa
però sta cambiando nella emozione che essi vivono quando ci si saluta.
L'intensità, la dolcezza e la vivacità di quel vino si mischia
a qualcos'altro, che non è facile definire. "Dopo 13 anni mi
alzerò e non avrò cose organizzate da fare. Non so prof.,
ma un po' mi spaventa finire la scuola". "Se si potesse farei
anche la sesta, perché davvero non so cosa fare adesso". "Bèh
io un'idea ce l'ho, ma non credo proprio che ce la farò, sarà
dura e non so se ho voglia di fare tutta sta fatica, magari è meglio
prendere quello che arriva senza farsi troppe menate in testa".
Cosa sta succedendo a questa generazione? Cercano strade praticabili che
gli consentano di salvarsi, di non consumarsi troppo? Scovano strategie
di sopravvivenza, per noi impensabili, per salvare la loro voglia di vivere
in un mondo che vorrebbe impacchettarla e servirla già precotta?
O semplicemente ci vengono a ricordare che qualcosa non va nel modo di vivere
che gli stiamo offrendo? Loro sanno perfettamente che la vita li spinge
a cercare un senso a ciò che sono e vogliono essere. Lo sentono nella
pelle. Di sicuro quello che sentono è qualcosa che sta a mezzo tra
lo spaesamento, la rinuncia preventiva e la paura del tempo vuoto. Certo
non sono tutti così. Ma anche quelli che hanno una prospettiva definita,
la vivono con una sorta di "scelta dovuta". "Penso che farò
l'università, trovare da lavorare non è mica facile oggi".
"Beh io andrò a lavorare nella ditta di mio padre perché
l'alternativa che mi danno i miei sarebbe solo quella di continuare a studiare
e non ne ho proprio voglia". Nella speranza che tra qualche anno qualcosa
sia accaduto e abbia aperto un senso più personale.
Come dire: io ho voglia di vivere e di diventare grande, ma non so davvero
che forma dare a questa voglia e così, per ora, mi adatto a ciò
che di meno peggio trovo in giro. Per loro, già a 19 anni, la realtà
e i desideri viaggiano su due binari paralleli che non si incontrano. Poi
certo, lo so, in qualche modo una strada la infileranno, ma mostrano di
sapere già che sarà un surrogato, o presa a prestito, o uguale
a quella di altri milioni come loro.
Però verso la fine dell'ora Antonio oggi mi ha detto: "Non so
davvero cosa farò, però so che io non ho voglia di vivere
semplicemente quello che i miei hanno già vissuto. Credo che Dio
sarebbe contento se io cercassi di fare qualcosa di nuovo, anche solo in
una piccolissima cosa, ma qualcosa di nuovo".
L'autore. Gilberto Borghi è nato a Faenza all'inizio degli anni
60, ha cercato di fare il prete, ma poi ha capito che non era affar suo.
E dopo ha studiato troppo, forse per capirsi e ritrovarsi. Prima Teologia,
poi Filosofia, poi Psicopedagogia e poi Pedagogia Clinica... (ognuno ha
i suoi demoni!). Insegna Religione, fa il Formatore per una Cooperativa
educativa.... Lavora per fare stare meglio le persone, finchè si
può... (luglio 2012)
In una recente udienza del mercoledì Benedetto XVI ha incontrato
i seminaristi del Seminario Maggiore di Roma. Parlando a braccio e commentando
la lettera di S. Paolo ai Romani, il Papa ha richiamato le parole dell'Apostolo
sulla fede della Chiesa di Roma di cui si parla in tutto il mondo e, ricordando
fatti recenti, ha detto: "Anche oggi si parla molto della Chiesa di
Roma, di tante cose, speriamo che si parli anche della nostra fede, della
fede esemplare della Chiesa di Roma".
"C'è - ha affermato - un non conformismo del cristiano",
ma "questo non vuol dire che vogliamo fuggire dal mondo, che a noi
non interessa il mondo; al contrario, vogliamo trasformare noi stessi e
lasciarci trasformare, trasformando così il mondo. Dobbiamo tenere
presente che, soprattutto nel Vangelo di Giovanni, la parola 'mondo' ha
due significati: il mondo creato da Dio, amato da Dio fino al punto da dare
suo Figlio. Il mondo è creatura di Dio, Dio lo ama e vuol dare se
stesso affinché sia realmente creazione e risposta al suo amore".
Ma c'è anche un'altro concetto del mondo, quello che "sta nei
poteri del male, che riflette il peccato originale". "Vediamo
questo potere oggi - ha sottolineato - in due grandi realtà, che
di per se stesse sono utili e buone, ma facilmente abusabili: il potere
della finanza e il potere dei media. Ambedue necessari, perché possono
essere utili, ma talmente abusabili che spesso diventano il contrario rispetto
alle loro intenzioni vere". Infatti, "vediamo come il mondo della
finanza possa dominare sull'uomo: l'avere e l'apparire dominano il mondo
e lo schiavizzano. Il mondo della finanza non rappresenta più uno
strumento per favorire il benessere, per favorire la vita dell'uomo, ma
diventa un potere che lo opprime, che deve essere quasi adorato, la vera
divinità falsa che domina il mondo". Di qui l'invito: "Contro
il conformismo della sottomissione a questo potere, siamo non conformisti:
non conta l'avere, ma l'essere! Non ci sottomettiamo a questo, usiamolo
come mezzo, ma con la libertà dei figli di Dio".
C'è, poi, il potere dell'opinione pubblica. "Certamente - ha
osservato il Papa - abbiamo bisogno di informazioni, di conoscenza della
realtà del mondo, ma può essere poi un potere dell'apparenza:
alla fine conta quanto è detto, più che la realtà stessa.
Un'apparenza si sovrappone alla realtà, diventa più importante
e l'uomo non segue più la verità del suo essere, ma vuole
soprattutto apparire, essere conforme a queste realtà".
Anche qui "c'è il non conformismo cristiano: non vogliamo essere
sempre conformati, lodati, vogliamo non l'apparenza, ma la verità
e questo dà libertà e la libertà vera, cristiana, il
liberarsi da questa necessità di piacere", di "parlare
come la massa pensa che dovrebbe essere e avere la libertà della
verità e così ricreare un mondo che non sia oppresso dall'opinione,
dall'apparenza che non lascia più apparire la realtà stessa",
quasi che il mondo virtuale "fosse più vero, più forte"
del reale.
Se "non si vede più il mondo reale della creazione di Dio",
occorre reagire: "Il non conformismo del cristiano ci redime, ci restituisce
alla verità. E preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere
uomini liberi in questo non conformismo che non è contro il mondo,
ma è il vero amore del mondo". (luglio 2012)
Un messaggio rivolto anche alla società, ai diversi livelli di
governo ed alla politica, un messaggio di speranza e responsabilità:
questo è stato Family 2012 che ha parlato dentro e fuori la Chiesa
con la forza e la delicatezza del linguaggio della famiglia. L'incontro
mondiale tenuto a Milano ha inserito nei canali della comunicazione pensieri
e parole che nascono e crescono in un tessuto di relazioni sincere e profonde,
come è quello di molte famiglie e che, purtroppo, non c'è
sempre nella società.
Al Family 2012, soprattutto grazie al Papa, ha preso maggior sostanza e
visibilità il contributo che la Chiesa non si stanca di offrire per
la costruzione di una società dal volto umano: in un tempo di incertezza
e di presunzione, si è nuovamente levata una voce che invita la società,
le istituzioni e la politica ad una seria assunzione di responsabilità.
La Chiesa torna a chiedere risposte non per se stessa e, nel medesimo tempo,
si dichiara pronta a cercare e costruire con altri le soluzioni più
efficaci e più capaci di rispondere alle esigenze della famiglia:
attese, non a caso, molto vive nelle nuove generazioni.
Ci sarà una risposta dalla società, dai diversi livelli di
governo e dalla politica, oppure ci si limiterà a ripetere che la
famiglia fondata sul matrimonio è solo una "questione cattolica"?
Si dirà che Family 2012 è stato un evento ecclesiale e tale
deve restare, oppure si cercherà di cogliere quel ragionare e progettare
che in esso si sono sviluppati e che possono riunire credenti e non credenti
nell'impegno per il bene comune?
Prenderà consistenza e prospettiva quella laicità positiva
che, se solo evocata, corre il rischio di ridursi a slogan, mentre è
un esercizio culturale e politico che ha come fondamento l'onestà
intellettuale e una grande visione di società e di futuro?
Oggi, su questo terreno, qualcosa va cambiando e il "cortile dei gentili"
appare sempre meno un'immagine suggestiva e sempre più un metodo
di confronto, e la famiglia non può che essere al centro del cortile.
Lo auspica, lo incoraggia la Chiesa con un linguaggio che magari potrà
non essere sempre di comprensione immediata, ma certamente indica che il
suo desiderio più forte, in una società complessa, è
quello di far nascere domande, suscitare pensieri, incoraggiare confronti,
concretizzare e condividere scelte per il bene comune.
In particolare, intorno a quei valori che saranno anche "non negoziabili"
ma, come è stato ripetuto più volte, non sono "non argomentabili":
il dialogo tra fede e ragione deve essere continuamente alimentato.
Family 2012 ha lanciato anche questo messaggio nell'unire la festa al lavoro,
la fragilità alla sofferenza, la crisi alla fiducia, la vita alla
morte. Non resterà una voce nel deserto se i laici cattolici lo porteranno
con competenza, passione e costanza nel dibattito culturale e politico,
attraverso un coordinamento efficace di iniziative culturali, politiche,
di comunicazione. Se sarà così, non potrà tardare la
risposta della società, delle istituzioni e della politica. (luglio
2012)
Di quale iniziativa stiamo parlando? A quale invenzione ci stiamo riferendo? Spesso siamo concentrati sulle nostre iniziative, sui guizzi che ci vengono nella creatività in vari campi; spesso i riflettori sono puntati su di noi. Oggi vorremmo provare a riconoscere e a fare sempre più nostra l'iniziativa di un Altro, l'iniziativa del Risorto stesso! Certo, perché in questo tempo di Pasqua, che necessita di almeno 50 giorni per poter essere gustato fino in fondo, ci ritroviamo con vigore dinnanzi alla manifestazione della Pasqua di Gesù nei confronti dei suoi discepoli. Lo immaginiamo in cammino con i due di Emmaus: con quale finezza si accosta, li accompagna, si mostra nello spezzare il pane (cfr. Lc 24) È lui che prende l'iniziativa: non potrebbe essere altrimenti, non potrebbero che tornare a casa sconsolati dopo ciò che è successo, e invece Ma ancora, è Lui che prende l'iniziativa sulle rive del lago: ha già preparato il banchetto e invita i suoi a mangiare: "Venite a mangiare!" (Gv 21, 12). Insomma, noi che siamo sempre intenti a mettere in atto iniziative capaci di attrarre, ricche di entusiasmo, che coinvolgono e vivacizzano; noi che progettiamo la pastorale e cerchiamo di vivere in pienezza noi nostri ambienti di vita; noi che inventiamo i modi più tecnologici per far correre gli eventi in tutto il mondo; noi che siamo quasi dei maghi della pubblicità capaci di offrire "prodotti" di assoluta qualità per la vita spirituale: noi dobbiamo fermarci dinnanzi all'iniziativa del Risorto! La Pasqua ci ricorda nuovamente questa straordinaria novità che ha il potere di rinnovare il nostro cammino, di ridare senso ai passi che muoviamo nella nostra quotidianità. I due di Emmaus lo avevano scoperto bene: l'iniziativa del Risorto ha permesso loro di rileggere le scritture, di lasciarsi scaldare il cuore da esse, di riconoscerlo nello spezzare il pane e di ripartire alla grande, con energie prima impensabili. Ecco, l'iniziativa del Risorto ha permesso loro di riprendere iniziativa sulla loro vita, una vita che sembrava spenta. E così anche sulla riva del lago, quel banchetto già preparato per loro poche parole, ci aspetteremmo lunghi discorsi e invece L'iniziativa del Risorto si spiega in vari modi, spesso con poche parole ma con una presenza che tu percepisci, che fatichi a descrivere, che riempie profondamente la tua esistenza. Sia dunque questo l'augurio per il tempo di Pasqua: lasciamoci travolgere dall'iniziativa del Risorto nell'ascolto della Parola, nell'invito a stare a tavola con Lui nell'Eucaristia, nella corsa verso i fratelli per gioire insieme di questa straordinaria presenza, o meglio di questa presenza che rende straordinario l'ordinario. Allora le nostre iniziative non saranno semplicemente nostre ma saranno segno di un incontro speciale che si rinnova giorno per giorno e ci rinnova continuamente: così i cristiani rendono il mondo sempre nuovo. In tutto questo non possiamo non ricordare Giovanni Paolo II, segno evidente di una vita rinnovata dall'incontro con il Risorto. Con lui certamente possiamo dire: "è già l'alba di un nuovo giorno!".(giugno 2012)
Benvenuti voi dell'Ultima Comunione
Prime Comunioni e Cresime portano in parrocchia
il tutto esaurito. Come curare davvero l'accoglienza di chi alla festa ci
"arriva da lontano"?
Anche chi dice "con la Chiesa ho chiuso da un pezzo" e ricorda
con fastidio la sua Ultima Comunione, prima o poi deve ritornarci: il funerale
di un collega o il matrimonio di un parente non troppo lontano - le due
chanches più note della cosiddetta "pastorale occasionale"
- ma soprattutto Prime Comunioni e Cresime, appuntamenti classici di questo
fitto mese di maggio. Registrano il tutto esaurito, anche in tempi di chiese
vuote: all'invito del nipote non si può dire di no ed ecco le navate
laterali affollarsi come non si vede mai d'inverno, in un crepitio di flash
luccicanti come certi abitini. L'hanno capito in molti nella pastorale -
non solo nel mercato della moda - e s'impegnano a dare un plus valore a
queste feste di maggio "ad invito", perché rappresentano
occasioni irripetibili di riannuncio a quelli dell'Ultima Comunione.
Catechisti e parroco ponderano la scelta delle date, evitando sovrapposizioni,
curano poi gli incontri di preparazione per genitori e padrini in cui suggeriscono
sobrietà e progetti per le missioni (da preferire ai regali di rito),
riciclano la "democratica" veste bianca con crocetta francescana
realizzata dalla vicina cooperativa sociale. Ma si può fare di più?
Probabilmente sì, se è vero che la celebrazione di questi
sacramenti - oltre ad essere un momento di per sé esemplare, attraverso
scelte e segni liturgici in cui passa la tensione educativa indicata dal
decennio pastorale della Cei - spalanca una rarissima finestra sulla vita
interna della comunità ecclesiale: quel "venite alla Festa"
viene ascoltato da ospiti "arrivati da lontano", da molto lontano.
Che occasione persa se si sentissero spettatori, quasi "portoghesi".
Se il linguaggio ecclesiale li facesse sentire stranieri. Se un'omelia infantile
li confermasse nell'idea che la fede è "roba da ragazzi".
Se il rigore formale trasmettesse loro il clima di una cerimonia più
che di un mistero. Correttivi? Alcuni raccolti qua e là: curare meglio
l'accoglienza - non solo ai bimbi, che già si sentono benvenuti -
con parole calde che fanno accomodare anche l'ultimo arrivato. Spezzare
la Parola agli adulti esaltandone la forza, con accenti più di speranza
che di rimprovero. Esprimere la dimensione comunitaria e gioiosa, pure al
Padre Nostro o al gesto della pace. Lasciar gustare il silenzio.
Ripensiamoci, insomma: come riavviare nella ricerca di fede questi adulti
e annunciare loro - aldilà delle preghiere dei fedeli troppo spesso
standard - che qui si celebra la vita, che la comunità cristiana
è attenta alla storia e al territorio, che il parroco conosce bene
la fatica del credere oggi, che qui la porta è sempre aperta, c'è
un posto sempre libero per te come per tutti?
Anche una "bella" Prima Comunione o una Cresima può riuscire
a creare una nostalgia. Per un clima fraterno, per un Padre che non giudica,
per relazioni umane fresche, libere, gratuite. Lo confermano i commenti
all'uscita sul sagrato: "
sai che è da molti anni che
non vivevo una Messa così?". (maggio 2012)
Qualcuno di coloro che leggono certamente parteciperà alla veglia
pasquale, la più santa e la più solenne di tutte le veglie,
per ascoltare ancora una volta l'annuncio della resurrezione di Gesù.
Assisterà al rito della luce e del fuoco con la benedizione del fuoco
nuovo al quale sarà acceso il cero pasquale e, al termine delle letture
dell'Antico Testamento, ascolterà per tre volte l'annuncio: "Cristo
Signore è risorto". Dunque, attraverso le parole e attraverso
i segni, rivivremo il nostro incontro con Gesù risorto e, parlando
della resurrezione di Gesù, parleremo anche di noi, della nostra
resurrezione che desideriamo e che proprio Cristo ci ha donato risorgendo
dai morti. Gesù ha vinto la morte per tutti noi, per tutti gli uomini
e le donne di tutta la terra: ha vinto il nostro male ed il nostro peccato
ed ha ridonato a tutti una fiducia e una speranza.
Ma forse qualcuno penserà: che senso ha celebrare così la
resurrezione quando il mondo continua ad essere segnato, funestato da sofferenze,
da odi, da banalità, da ostilità, da violenze e da guerre?
Che senso ha rallegrarsi della vittoria di Cristo sulla morte, quando la
morte esiste ancora, anzi è la sola cosa sicura che noi sappiamo
sul nostro futuro? Sono le domande più inquietanti che forse abbiamo
dentro mentre siamo qui a proclamare "Cristo è risorto":
se è risorto, perché dobbiamo ancora morire? Perché
tanti delitti, tante tragedie, tante lacrime? Ebbene, è proprio per
questo che stiamo celebrando la Pasqua: la Pasqua di Gesù non trasferisce
automaticamente nel mondo dei sogni. Ci raggiunge nel cuore per farci percorrere
con gioia e con speranza quel cammino che ha come prospettiva, come sfondo
la certezza di una vita che non muore più. La Pasqua non fa entrare
in un mondo irreale, ma fa vivere una esistenza autentica, fatta di fede,
di speranza e di amore. Se lo capiamo, allora la Pasqua è dentro
di noi e comincia ad operare, ad agire intorno a noi.
Dunque, oggi, la Pasqua di Gesù è in noi, è tra noi
come sorgente di vita, come presenza che possiamo già sperimentare
nella preghiera, negli slanci del cuore, nella gioia profonda che, in qualche
momento, sentiamo nel nostro animo. È in noi e con noi questa Pasqua
quando ascoltiamo la Parola del Signore, ci nutriamo del suo corpo e del
suo sangue, quando riceviamo su di noi l'acqua del Battesimo. Evidentemente,
la vita di ogni giorno, domani come ieri, va vissuta con realismo, va affrontata
nelle sue concrete difficoltà. Tuttavia, ormai contiene un principio
incrollabile: siamo certi che Gesù risorto è con noi nei fatti
piccoli e grandi della vita, siamo certi che ha vinto per noi il male, il
peccato, la banalità la noia, la frustrazione e la morte.
Con lui siamo in grado di vincere il male con il bene, di ricavare dal male
un bene più grande: ecco la forza e la novità della Pasqua
che stiamo vivendo. (aprile 2012)
I soldi non sono tutto ci hanno abituato a dire fin da piccoli: ma se guardiamo all'oggi ci rendiamo conto di essere condizionati più di quanto non immaginiamo. E allora come la mettiamo con la sobrietà quando non si tratta solo di predicarla?
Parliamo di soldi. Non manca giorno che ci venga messo sotto il naso il fatto che una bella fetta di umanità prospera allegramente e con grandeur molto oltre le vite comuni di tanti. I quali forse aspettano solo l'occasione giusta per poter fare altrettanto. Occasione che non verrà mai, ma chi può dirlo? E' la logica del "gratta e vinci: se non giochi non puoi saperlo. Ma, diceva uno che se ne intendeva, è la tassa che tutti i poveri sono disposti a pagare... Così, quando sento i miei figli dire: "Ho trovato - nella loro testa, s'intende! - un lavoro perfetto: si guadagna molto e non si fa quasi niente", mi domando dove ho sbagliato. E non solo per l'amara constatazione di aver allevato alcuni ulteriori esemplari di gagliardi consumatori di cui un'economia a rischio recessione ha un estremo bisogno (c'è un Nobel per questo?). Ma perché, forse, non sono veramente convinta quando predico parole come: sobrietà, risparmio, lungo periodo... O, se lo sono, forse trapela un filino di rabbia facilmente scambiabile per invidia. E dire che, tutto sommato, non ci manca nulla. Il punto però è che la sobrietà non può essere la striminzita giustificazione di un dato di fatto ma piuttosto un barlume d'ideale che dovrebbe rimandare all'idea di una vita avuta solo a prestito. Qui c'è proprio una rottura col mondo e i pur necessari compromessi a un certo punto (quale?) devono avere fine. Mi sembra, infatti, che abbiamo sdoganato con troppa fretta lo sterco del diavolo e oggi ci ritroviamo ad alzare un'asticella sempre più in alto senza che nessuno abbia il coraggio di dire che, però, un po' olet, ovvero, puzza.
L'autore: Maria Elisabetta Gandolfi, classe 1966, è giornalista professionista e lavora da una ventina d'anni presso la rivista Il Regno. Sposata con un insegnante, ha tre figli e un cane; si divide con passione e a volte con qualche affanno tra lavoro, casa e scuole dei figli.
La Quaresima non chiede di distogliere lo sguardo dalle tante tragedie che
colpiscono l'umanità: al contrario, chiede di condividerle con maggiore
passione tenendo aperta, nonostante tutto, la porta della speranza. Quella
speranza che si fonda sul Vangelo, che vive di Vangelo, che comunica il
Vangelo: una speranza non scritta in pagine di carta, ma in pagine di vita
scritte da uomini e da donne. Sono coloro ai quali Benedetto XVI si è
rivolto con queste parole: "Dobbiamo essere un messaggio vivente, anzi
in molti casi siamo l'unico Vangelo che gli uomini di oggi leggono ancora".
"L'unico Vangelo": è una affermazione realistica, non venata
di pessimismo o di rassegnazione ma, al contrario, è un inno alla
libertà nell'appartenenza che richiama la testimonianza di tanti
cristiani perseguitati ed uccisi anche oggi.
Il Papa spiega lo stile con il quale annunciare il Vangelo e lo paragona
a quello dell'ambasciatore: "Un ambasciatore - ha detto - ripete quello
che ha sentito pronunciare dal suo Signore e parla con l'autorità
e dentro i limiti che ha ricevuto. Chi svolge l'ufficio di ambasciatore
non deve attirare l'interesse su se stesso, ma deve mettersi a servizio
del messaggio da trasmettere e di chi l'ha mandato". Il cristiano non
ha un suo messaggio, ha il messaggio di un Altro e, nello stare dentro la
storia, sente la responsabilità di una comunicazione completa, fedele
e coerente. Ma occorre sempre guardarsi dal rischio di raccontare molto
se stessi e molto poco gli altri e l'Altro. C'è oggi un protagonismo
crescente che un comunicatore autentico non può condividere, e ancor
meno lo può condividere un cristiano consapevole che non è
la sua capacità comunicativa ma la forza della Parola a smuovere
i muri, a inquietare le coscienze, a indicare nuovi orizzonti di riflessione,
ad aprire sentieri di serenità.
Benedetto XVI, nella stessa omelia, accanto allo stile dell'ambasciatore
pone, poi, lo stile della persona umile che non vuol dire affetta da complessi
di inferiorità o di minoranza. Sembrerebbero due stili molto diversi,
ma non è così: "Quando si compie qualcosa di buono -
ha detto - quasi istintivamente nasce il desiderio di esser stimati e ammirati
per la buona azione, di avere, cioè, una soddisfazione. E questo,
da una parte rinchiude in se stessi, dall'altra porta fuori da se stessi,
perché si vive proiettati verso quello che gli altri pensano di noi
e ammirano in noi". Chi comunica un messaggio, come quello del Vangelo,
compie "qualcosa di buono" e sperimenta la grandezza di essere
umile operaio della vigna. Non a caso questi pensieri sono posti all'inizio
della Quaresima, tempo in cui ogni cristiano avverte più che mai
la bellezza di essere ambasciatore e insieme persona umile. Due stili apparentemente
distanti ma che vissuti insieme esprimono la statura culturale, morale e
spirituale di una persona: disegnano il volto del cristiano. (marzo 2012)
Arriva la settimana "grassa" e ci assale subdolamente il desiderio
di non partecipare ad una liturgia stanca e ripetitiva: "Semel in anno
licet... marinare?", anche perché - coi tempi che corrono -
non ci resta tanto da ridere.
Proviamo a cacciare la tentazione di un anno sabbatico senza coriandoli,
ridicendoci invece che in parrocchia e in oratorio, ma anche a scuola o
in associazione, il Carnevale resta pur sempre il "tempo favorevole"
per convocare tutta la comunità - dagli asilotti ai nonni del gruppo
pensionati - e gustare relazioni nuove. Gnocchi o chiacchiere alimentano
ai fornelli disponibilità impensate, con il grembiule della cucina
si possono finalmente allacciare contatti con chi "nelle altre domeniche
non si vede mai". E anche una recita sul palco diventa un'indimenticabile
"messa alla prova" dei legami fra di noi: altro che i talent show
televisivi...
Questo stile fai-da-te, gustato anche dai figli, è poi una bella
botta educativa contro il consumismo che ammorba le vetrine in queste giornate.
Fa scuola in oratorio anche il grande gioco in stile robinsoniano, quello
che utilizza come Crusoè tutto il materiale di recupero, e via riciclando.
Ma forse in quest'obbligo talvolta pesante di mettersi la maschera assieme
a tutti gli altri genitori c'è forse un'altra chanche in più:
siamo costretti a toglierci la nostra! Eh sì, in fondo, Carnevale
ci offre qualche ora in cui buttar via certe artificiose coperture con cui
usiamo presentarci in comunità. Qualche esempio? Sempreserio, ovvero
la maschera dell'analista o dell'intellettuale eternamente corrucciato,
come se perfino prima di giocare a calcetto ci fosse da fare una valutazione
d'impatto ambientale. Ecco poi Leaderman, colui che in qualsiasi posto si
trovi deve prendere sempre il comando della situazione (magari con la buona
fede o scusa di non lasciare vuoti di...potere), mentre alla mascherata
cittadina può finire assegnato all'umile pedagogico compito di...
ultima ruota del carro.
Un terzo personaggio è Distinguino, il perfetto cristiano talmente
bravo che non sa proprio fare il gregario del gruppo, mette sempre una marcia
in più. Anche lui, almeno a Carnevale, se vuole indossare come tutti
una maschera, deve togliersi questa smania distintiva e chissà che
non impari quanto è utile e altrettanto propizio "stare nel
gregge".
Sempreserio, Leaderman e Distinguino sono solo tre delle possibili maschere
che ci possiamo e/o vogliamo togliere. Ai lettori ne verranno sicuramente
in mente altre.... per allungare la sfilata. Buona smascherata!
Diego Andreatta, classe 1962, laureato in sociologia a Trento (dove
è nato, vive e va in montagna), dal 1987 è giornalista professionista
al settimanale diocesano Vita Trentina (caposervizio) e dal 1996 corrispondente
di Avvenire. Sposato con Chiara, ha cinque figli che gli offrono preziose
informazioni sulla vita e sulla fede oggi. (febb. 2012)
Perché Dio sta zitto? È una domanda di sempre. L'occasione
di ritornarci sopra è stato un incontro con Sabino Chialà,
monaco di Bose.
Il tema era proprio quello del silenzio, meglio dei silenzi, perché
ce ne possono essere diversi, buoni o cattivi, a seconda che esprimano comunicazione
o mutismo, compassione o disprezzo e via dicendo... Saper riconoscere e
coltivare i silenzi buoni fa parte di un'ecologia della vita, della cura
della propria umanità che non è un dato, ma un percorso. L'incontro
con fratel Sabino si è tenuto al Centro diocesano di spiritualità
di Crema e ha avuto una partecipazione notevole per un evento del genere.
In un tempo che sembra estraneo al cristianesimo, che cosa li ha spinti?
Si tratta, io credo, della ricerca di una spiritualità che non sia
un discorso esotico o esoterico per addetti ai lavori, riguardante fantasie
fumose e impalpabili, ma lettura sapiente della realtà nella concretezza
delle sue dimensioni: il rapporto con il corpo e con le cose, le relazioni
con gli altri, la conoscenza di noi stessi, il senso del tempo che viviamo,
le scelte... Declinata in questo modo, come discernimento del divino che
abita l'umano, la spiritualità è arte di vivere e di amare.
Un punto importante del discorso di Chialà è quello del silenzio
di Dio che molti sperimentiamo nelle contraddizioni e nelle tragedie della
vita. È un problema che mi sta particolarmente a cuore. Ho conosciuto
la malattia in prima persona e incontrato altri intenti ad attraversare
questa terra d'ombra. Spesso si deve constatare che Dio tace, di fronte
al grido dell'uomo. Un tacere che è scandaloso e doloroso.
Una possibile reazione, dinnanzi al silenzio di Dio, è concludere
molto semplicemente che non c'è nessun Dio. Ce n'è, però,
un'altra, che ho fatto presente a partire da uno straordinario testo di
André Neher, studioso della Bibbia ebraica. Ne L'esilio della parola
- ripubblicato lo scorso anno da Medusa - si è soffermato proprio
sul silenzio di Dio, dalla Bibbia ad Auschwitz. Neher, senza negare il vuoto
che il silenzio lascia, non dà una risposta definitiva, ma indica
una direzione nello spazio del forse, quello che si apre quando si semina
un terreno.
"Forse, la primavera prossima, da questo solco uscirà del pane.
Forse, invece, verranno la siccità e la grandine. L'essenziale non
è nel raccolto, l'essenziale è nella semina, nel rischio,
nelle lacrime. La speranza è nelle lacrime, nel rischio e nel loro
silenzio". Nel silenzio è possibile riconoscere Dio, forse.
Non in discorsi e prodigiose dimostrazioni di potenza. Gesù è
rimasto inchiodato alla croce e ci è morto. C'è stato chi
lo ha deriso e bestemmiato. In quella stessa circostanza, narra il Vangelo,
il centurione lo ha riconosciuto Figlio di Dio. Se c'è ancora spazio
per l'umanità, per il bene, per la speranza - nonostante il dolore
e la morte -, questo non è il segno della provvidenza discreta di
Dio? Non è una dimostrazione matematica, è lo spazio dell'attesa
vigilante.
Proprio per questo è necessario un silenzio su Dio, che eviti di
cucirgli addosso le nostre speculazioni inadeguate, facendone un idolo a
nostra immagine e somiglianza. Non è che tanti non ne vogliono più
sapere di Dio, perché di lui si parla troppo e a sproposito? Su Dio
c'è un eccesso di parole, ci vorrebbe più silenzio.
L'autore: Christian Albini (Crema, 1973) marito, padre, insegnante,
teologo. Partecipa alla vita cristiana della sua comunità parrocchiale
e della sua diocesi. È autore di libri, articoli. È socio
fondatore dell'associazione Viandanti. (genn. 2012)
Vale forse la pena di fare qualche "ripasso" su cosa significa
il Natale. Innanzitutto dice che il Figlio di Dio si è fatto uomo,
perché anche ogni uomo ed ogni donna potessero diventare figli di
Dio. Occorre non dimenticare, innanzitutto, questa dignità alla quale
la venuta di Gesù ci eleva e che dà nuova speranza e nuova
luce alla vita.
In secondo luogo, venendo tra noi, il Figlio di Dio vince una delle angosce
più gravi del nostro tempo, quella della solitudine che avvelena
la vita e sta alla radice di molte nostre paure: dopo il Natale sappiamo
che lui è con noi.
Inoltre, il Natale rafforza un invito che l'Arcivescovo quest'anno rivolge
a tutti, quello alla santità. Essere santi significa non accontentarsi
di seconde scelte, non perseguire obiettivi parziali e limitati: la felicità
è qualcosa che tutti desideriamo, ma uno dei grandi drammi della
vita è che tanti non riescono mai a trovarla perché la cercano
nei posti sbagliati. Natale dice che la vera felicità va cercata
in Dio il solo che può soddisfare i bisogni, i desideri più
profondi del nostro cuore.
Quindi il Natale non può essere sottovalutato come fosse un qualsiasi
momento folcloristico e neanche metterci a disagio perché sembra
aver smarrito il suo senso più intimo e più vero. Ci porta
ancora una volta a farci le domande di fondo a chiederci chi è quel
bambino, a vedere Dio in un bambino, a credere in un Dio che sceglie di
racchiudere la sua grandezza nella debolezza della nostra umanità.
E, quindi, diventa un impegno di conversione, è accettare di rispondere
alle attese di Dio e a fissare la nostra attenzione sull'attesa di Dio che
viene anche quest'anno. La Parola di Dio ci aiuta e ci guida a conservare
la speranza: Natale sia per tutti occasione per rendere più attento
il nostro sguardo, per accorgersi che il Regno avanza, è presente,
che io, voi, tutti noi, insieme, possiamo di nuovo renderlo presente. Se
ci crediamo, se ne capiamo a fondo il significato, se decidiamo di dare
qualche piccolo segno, qualche anticipazione concreta di quella salvezza
che anche oggi viene a portare per tutti.
Quindi, il Natale non rendiamolo vano, rispondiamo all'attesa di Dio che
si è fatto bambino perché potessimo andare da lui come se
fosse lui ad avere bisogno di noi. Perché il cuore della nostra attesa
è nel sapere che Dio ci attende, pazientemente, da sempre. (dic.
2011)
Distratti da tante proposte pubblicitarie e nello stesso preoccupati per
la crisi economica, viviamo nel tempo di Avvento faticando a riconoscerne
la dimensione propria della fede cristiana. Eppure l'Avvento è il
tempo forte che apre l'anno liturgico con l'invocazione e l'attesa del Signore
Gesù, venuta alla quale affermiamo di credere ogni volta che recitiamo
il "Credo": "verrà nella gloria a giudicare i vivi
e i morti". Ma oggi possiamo chiederci se i cristiani attendono ancora
la venuta del Signore con lo stesso spirito che animava le prime generazioni
dei discepoli. E si tratta di una domanda fondamentale per la Chiesa, perché
la comunità cristiana è definita proprio a partire da ciò
che attende e spera; una domanda ancor più decisiva in una stagione
in cui sembra regnare il complotto del silenzio su questo evento che Gesù
ci mette davanti come un giudizio innanzitutto misericordioso, ma anche
capace di rivelare la giustizia e la verità di ciascuno. A volte
si ha l'impressione che il tempo venga letto secondo una mentalità
che appiattisce, come uno scorrere di giorni sempre disperatamente gli stessi,
privo di sorprese e di novità essenziali: un eterno presente in cui
possono accadere tante cose, ma non la venuta del Signore Gesù. Altre
volte, sembra che l'Avvento venga ridotto ad una pura e semplice preparazione
del Natale, quasi che si attendesse ancora una venuta materiale di Gesù,
come a Betlemme. In realtà il cristiano ha la consapevolezza che
se non c'è la venuta del Signore nella gloria, allora è da
compiangere più di tutti gli illusi della terra, e se non c'è
un futuro che ha come conclusione la venuta di Gesù, allora anche
la fede qui ed ora diventa insostenibile. Un tempo sprovvisto di una direzione,
di un esito, di un orientamento, che senso può avere, quali speranze
può far nascere? Dunque, per il cristiano, l'Avvento è un
tempo "forte" perché in esso come comunità ecclesiale,
cioè in un impegno comune, ci si esercita nell'attesa del Signore
alla visione delle realtà invisibili e al rinnovamento della speranza
perché c'è una salvezza portata da Cristo, che noi conosciamo,
nella remissione dei peccati, ma la salvezza non è ancora sperimentata
come vita libera dalla minaccia della morte, della malattia e del dolore.
L'Avvento riporta al cuore del mistero cristiano: la venuta del Signore
alla fine dei tempi non è altro che la pienezza, la realizzazione
definitiva della resurrezione di Gesù. In questi giorni di Avvento
occorre, allora, porsi una domanda fondamentale: sappiamo cercare Dio nel
nostro futuro avendo nel cuore l'attesa della venuta di Cristo, come sentinelle
impazienti del mattino? Cosa ne abbiamo fatto dell'attesa del Signore?
Siamo in un tempo di grandi cambiamenti e ci sentiamo impegnati a vivere
e ad annunciare il Vangelo "in un mondo che cambia".
Per esprimere un autentico spirito missionario e una reale corresponsabilità
anche le nostre Comunità Cristiane sono chiamate a ripensare l'intera
proposta pastorale, i vari organismi di partecipazione e la loro articolazione.
In questa prospettiva il rinnovo dei Consigli Pastorali e dei Consigli per
gli Affari Economici può essere un'occasione propizia per rinnovare
il nostro impegno di vota cristiana e di testimonianza. Il Consiglio Pastorale
infatti è un organismo di partecipazione ecclesiale nella vita della
comunità: chiede la presenza di laici formati, che siano anche appassionati
per la vita "intera" della Comunità Cristiana e che sappiano,
in una reale corresponsabilità, collaborare con sacerdoti e religiosi
nella costruzione di una Chiesa capace di vivere il Vangelo e di parlare
di Gesù in linguaggi e modalità comprensibili a tutti.
A volte si corre il rischio di pensare che per far parte significativamente
del Consiglio Pastorale bastino buona volontà e disponibilità.
Senza mettere in secondo piano queste virtù, è però
necessario ribadire che è anche indispensabile una formazione, per
lo meno ad uno sguardo complessivo della vita della Comunità, ad
una vera passione ecclesiale, ad una visione di Chiesa come emerge dal Vaticano
II.
I Consigli Pastorali sono luoghi in cui si può realmente sperimentare
un cammino di corresponsabilità. È necessario però
i laici si assumano le loro responsabilità, contribuendo fattivamente
alla costruzione delle proposte pastorali.
Sempre più appare evidente che una Parrocchia non può pensarsi
come autosufficiente, ma deve avviare, o intensificare forme di collaborazione
con le Parrocchie vicine. È questo un cammino da percorrere positivamente
e senza rimpianti, come una risposta reale agli interrogativi del nostro
tempo. La preparazione delle votazioni non è solo un adempimento
"burocratico" ma è un autentico momento di vita ecclesiale
che aiuta a sentirsi partecipi della vita parrocchiale e delle sue decisioni.
(ottobre 2011)
Si sta concludendo il periodo delle vacanze e l'augurio è che
per tutti si tratti di una "ripresa" autentica e serena: autentica
perché i segnali di crisi non sono ancora superati e restano molte
situazioni di difficoltà, serena perché le polemiche ferragostane
non aiutano ad intravedere un futuro senza problemi.
Ma, proprio a consuntivo del periodo di vacanza e come indicazione preziosa
per in tempi che verranno, crediamo valga la pena di richiamare alcune parole
pronunciate dall'Arcivescovo nell'omelia del 15 agosto, festa dell'Assunzione
di Maria al cielo.
"Il rischio che tutti corriamo - ha detto - è di guardare in
basso, solo in basso, imprigionati e rovinati come siamo dal nostro 'io'
che, ripiegandosi su se stesso, tende ad assolutizzarsi, a configurarsi
come un 'idolo' da adorare e per il quale si è disposti a sacrificare
tutto".
Il Cardinale invita a "guardare in alto", a Maria Assunta, proprio
perché "un 'io' così inquina il rapporto essenziale che
ciascuno di noi ha con gli altri: siamo fatti per l'incontro e la relazione.
Quando, però, sull'incontro e sulla relazione prevale l'affermazione
del proprio 'io', la sensibilità verso l'altro diventa indifferenza,
l'impegno verso l'altro non è più percepito e vissuto come
responsabilità, il dono di sé all'altro qualcosa di non dovuto".
Un soggettivismo, quindi, che il card. Tettamanzi definisce un "virus
che mina anche la famiglia" mentre "i limiti di un 'io' così,
ripiegato su se stesso, non è difficile riscontrarli anche là
dove ci si esprime con un 'noi'. In realtà, anche nelle stesse occasioni
in cui si vivono modi di essere e di agire associati, non necessariamente
si è di fronte a relazioni veramente aperte all'altro".
Dalla famiglia alla società il passo è breve, e il cardinale
aggiunge che lo stesso male "purtroppo capita in alcuni gruppi, dove
l'interesse che è al centro dell'associarsi è 'privato', esclusivamente
corporativo, per tutelare interessi particolari e parziali, dove il bene
dei singoli non è perseguito in relazione al bene comune dell'intera
società, ma ricercato contrapponendosi ad altri, non di rado a scapito
del danno del bene altrui".
Inevitabilmente si arriva anche al livello politico e l'Arcivescovo afferma
che "questo atteggiamento è altrettanto grave e gli effetti
altrettanto dannosi quando è realizzato da coloro dai quali, invece,
si attenderebbe un contributo decisivo alla costruzione del bene comune:
penso ad alcuni modi di vivere il 'noi' tipico dell'esperienza dell'associarsi
per fare politica, sindacato, impresa economica, servizio pubblico o - addirittura
- ad alcuni modi di vivere l'esperienza ecclesiale. In apparenza si dichiara
di essere a servizio degli altri, in realtà si considerano 'gli altri'
funzionali ai propri interessi. Così, senza l'apporto di queste istituzioni
al bene di tutti, la città e il paese non sono più guidati
e sostenuti in un percorso ragionato e lungimirante di crescita complessivo,
attento ai bisogni di tutti. Gli interessi dei singoli e dei singoli gruppi
prevalgono violentemente, ferendo e disgregando la città, limitando
la sua progettualità, esponendo ad ancora maggiori povertà
e debolezze chi povero e debole lo è già". (settembre
2011)
Anche un gruppo di giovani di Domo ha partecipato per la prima volta alla GMG che quest'anno si è tenuta a Madrid dal 16 al 21 agosto,
insieme ad altri giovani del Decanato di Luino. La loro riflessione pubblicata sul Notiziario di Ottobre 2011
La XXV Giornata mondiale della gioventù, tenutasi a Madrid lo
scorso agosto è stata un'esperienza completamente nuova ed inaspettata.
Siamo partiti con un gruppo di ragazzi del luinese, guidati dall'infaticabile
don Oscar, conoscendo solamente a quali messe, celebrazioni ed eventi avremmo
partecipato, ma non potendo immaginare cosa realmente sarebbe stato immergersi
in una folla colorata di ragazzi provenienti da tutto il mondo.
Madrid era una città in festa, animata in ogni angolo, via e piazza
dai canti e dalle preghiere di circa 2 milioni di giovani, riunitisi in
un unico luogo per dimostrare al mondo il loro amore per un'unica Persona,
Gesù.
"Firmes en la fe", cioè radicati nella fede, è infatti
la frase di San Paolo divenuta motto di questa edizione della GMG ed è
ciò che si poteva percepire nello sguardo di ogni ragazzo che abbiamo
conosciuto o semplicemente incrociato per le strade della capitale spagnola:
nazionalità, lingua e cultura diversi, ma un'unica Fede, un'unica
Speranza che ci accumunava oltre ogni differenza.
Abbiamo sopportato il caldo torrido, le docce fredde, la sveglia all'alba
e il pavimento duro di una palestra dove abbiamo dormito insieme ad altre
centinaia di ragazzi; ma tutto ciò ci ha permesso di vivere ancora
più intensamente momenti emozionanti come la messa a piazza de Cibeles,
la catechesi mattutina dei Vescovi, l'incontro con i Card. Tettamanzi e
Scola ed infine la lunga veglia di preghiera con il Papa.
È stato sicuramente durante quest'ultima, l'apice di quel sentimento
di gioiosa fratellanza che si respirava tra le strade di Madrid nei giorni
precendenti: il Santo Padre ha ancora una volta lasciato a noi giovani il
compito di costruire in terra il Regno di Dio, ricordandoci che solo nella
salda unione in un'unica fede universale potremo realizzare questa speranza.
I cristiani continuano ad essere discriminati e perseguitati in diversi
luoghi del mondo: quasi ogni giorno giungono notizie in questo senso, in
particolare dal Medio e dall'Estremo Oriente e dall'Africa. Sembra che il
cristianesimo sia, oggi, la religione che paga il prezzo più alto
della persecuzione nelle sue forme più diverse, subdole o aperte,
dichiarate esplicitamente o praticate con ferma ma silenziosa determinazione
e che talvolta assumono - costringendo all'emigrazione forzata - forme di
vera e propria "pulizia", stravolgendo il volto di realtà
segnate dalla convivenza secolare di famiglie appartenenti a un diverso
credo religioso. Si tratta di un fenomeno che, alla fine, impoverisce il
tessuto civile e crea le premesse per violenze e conflitti ancora più
grandi.
Del resto, nella solennità dei Santi Pietro e Paolo, il Papa era
stato chiaro: aveva parlato della persecuzione come di una realtà
con cui da sempre i cristiani si devono misurare. Aveva ricordato come le
persecuzioni "malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono
il pericolo più grave per la Chiesa. Il danno maggiore, infatti,
essa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei
suoi membri e delle sue comunità, intaccando l'integrità del
Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza,
appannando la bellezza del suo volto". Da sempre è la conversione
e la testimonianza l'atteggiamento spirituale essenziale del cristiano nel
mondo. Di fronte alle persecuzioni - non solo quelle del passato, ma soprattutto
di fronte a quelle di oggi - la risposta è una ferma, serena rivendicazione
della libertà religiosa. E il Papa ha ribadito l'importanza cruciale
del tema della libertà della Chiesa, nella storia, ma anche e soprattutto
nel mondo di oggi, in cui si parla tanto di libertà, ma nel quale
gli spazi dell'autentica libertà rischiano di essere ristretti in
mille modi.
La libertà è collegata alla struttura particolare della Chiesa,
caratterizzata dal ruolo del Papa: sul piano della realtà storica,
della politica e delle relazioni internazionali, dice il Papa, "l'unione
con la Sede apostolica assicura alle Chiese particolari e alle Conferenze
episcopali la libertà rispetto a poteri locali, nazionali o sopranazionali,
che possono in certi casi ostacolare la missione della Chiesa". Assicura,
inoltre, "garanzia di libertà nel senso della piena adesione
alla verità, all'autentica tradizione, così che il popolo
di Dio sia preservato da errori che riguardano la fede e la morale"
Sono le parole centrali del pontificato di Benedetto XVI: la libertà
della Chiesa richiama la realtà della comunione. "Questo appare
evidente nel caso di Chiese segnate dalla persecuzione , oppure sottoposte
a ingerenze politiche o ad altre dure prove. Ma ciò non è
meno rilevante nel caso di comunità che patiscono l'influenza di
dottrine fuorvianti, o di tendenze contrarie al Vangelo". (agosto 2011)
Il giorno di Ferragosto, tradizionalmente si celebra la festa dell'Assunzione
di Maria. Cosa si intende, cosa significa la parola "Assunzione"
che costituisce il motivo di questa festa?
Si intende dire che la Madonna, tanti anni fa, ha concluso la sua vita terrena,
ma il suo corpo non ha subito la distruzione, la corruzione causata dalla
morte. Forse non c'è stata nemmeno una malattia grave, forse non
è neppure necessario pensare che i fatti si siano svolti così
come ce li illustrano, ce li descrivono alcune rappresentazioni celebri
dell'Assunta dove si vede Maria che sale al cielo sotto gli occhi degli
apostoli.
Probabilmente tutto si è svolto in maniera molto semplice: passavano
gli anni, la Chiesa continuava a predicare, a convertire, a soffrire le
persecuzioni, a diffondersi in tutto il mondo conosciuto e, a un certo punto,
si è sparsa la voce che la Madre di Gesù non era più
su questa terra. Allora, probabilmente, tanti pellegrini si sono mossi per
andare a venerare - come si fa con i santi - le sue reliquie ma non le hanno
trovate perché Maria era stata assunta presso Dio non solo con la
sua anima, ma anche con il suo corpo.
Magari senza testimoni immediati, senza lasciare tracce particolari, ma
perfettamente in linea con quello stile di riservatezza, di non appariscenza,
che ha conservato durante tutta la sua vita. La Madonna probabilmente (questo
non lo sappiamo con certezza) è morta in silenzio come in silenzio
è vissuta, senza spettacolo, senza clamori, ma certamente (di questo
ne siamo sicuri) con serenità, con il grande desiderio di rivedere
suo Figlio, con la gioia di raggiungerlo, con la certezza di essere nelle
mani di un Padre buono e affidandosi, ancora una volta, completamente a
lui.
E proprio per questa sua disponibilità, per questa fiducia che le
aveva consentito di essere la Madre del Salvatore, Maria è stata
portata in cielo dal Signore con il suo corpo. Maria non ha lasciato la
terra - come talvolta capita a noi - con rimpianto, con paura, con un senso
di amarezza, di angoscia, di ripugnanza, ma, invece, l'ha lasciata con fiducia
e con serenità.
E, in questo senso, è dunque anche protettrice nostra e di tutti
coloro che sono afflitti dalla malattia, angustiati dal timore della morte,
sofferenti perché qualcuno dei loro cari li ha lasciati per sempre.
La Madonna Assunta dà la certezza, la sicurezza che, oltre la morte,
ci attende l'incontro con Dio e che noi saremo sempre con lui, così
come lei, ora, è presente presso il Padre anche con il suo corpo.
(agosto 2011)
EDIFICARE UNA VITA BUONA
Nelle scorse settimane, Benedetto XVI ha compiuto, da Aquileia a Venezia,
un grande e festoso viaggio nel vivo della "nuova evangelizzazione":
in costante dialogo con la Chiesa e la società locale, ha posto un
altro tassello di quella proposta diretta all'Europa e al mondo occidentale
- cioè ai paesi di più antica e radicata cristianità
- che rappresenta una delle linee centrali del suo pontificato. Un rapporto
tra radici cristiane, presente complesso e futuro da costruire, impegnativo
ed aperto. Il Papa ha rilanciato una sfida da cogliere in tutta la sua pienezza:
"Siete chiamati a promuovere il senso cristiano della vita, mediante
l'annuncio esplicito del Vangelo, portato con delicata fierezza e con profonda
gioia, nei vari ambiti dell'esistenza quotidiana. I cambiamenti culturali
in atto chiedono di essere cristiani convinti, capaci di affrontare le nuove
sfide, in rispettoso confronto, costruttivo e consapevole, con tutti i soggetti
che vivono in questa società ". Il Papa invita a "cercare
di comprendere le ragioni del cuore dell'uomo moderno", avendo chiari
i punti di partenza e quello di arrivo. Ci sono gli spazi della politica,
dell'economia, della cultura - oggi come domani - da "umanizzare",
in cui "assumersi responsabilità dirette", dove operare
per "edificare una 'vita buona' a favore e al servizio di tutti".
È il "grande sforzo da compiere" perché ogni cristiano
"si trasformi in testimone, pronto ad annunciare con vigore e con gioia
l'evento della morte e della resurrezione di Cristo".
Stiamo attraversando un passaggio storico non scontato, competitivo, che
richiede impegno rinnovato. Infatti Benedetto XVI ha ben presente il rischio
di una omologazione alle "ricorrenti tentazioni della cultura edonistica
e ai richiami del consumismo materialista". Lo ha detto chiaramente
nel discorso conclusivo al mondo della cultura, dell'impresa e dell'arte:
"Si tratta di scegliere tra una città 'liquida', patria di una
cultura che appare sempre più quella del relativo e dell'effimero,
e una città che rinnova costantemente la sua bellezza attingendo
alle sorgenti benefiche dell'arte, del sapere, delle relazioni tra gli uomini
e tra i popoli", in una parola, alla sua identità cristiana.
Che non è una ideologia né un'utopia: il Vangelo, ribadisce
il Papa, "è la più grande forza di trasformazione del
mondo". È "la via", prosegue Benedetto XVI, "cioè
il modo di vivere che Cristo ha praticato per primo e che ci invita a seguire".
Indica le grandi prospettive e, nello stesso tempo, la consapevolezza della
quotidianità.
La nuova evangelizzazione dell'Occidente comporta fedeltà e creatività,
la verità nella carità, ripete il Papa, consapevole che comunque
la credibilità passa per la concretezza e insieme per la capacità
di progetto e di visione. Una sintesi che anche la vita civile ed economica
reclamano con sempre maggiore urgenza. (luglio 2011)
DALLA TV AD INTERNET
Internet appare come il mezzo di comunicazione preferito dagli adolescenti
italiani a scapito della televisione che finora era stata al vertice delle
loro preferenze. Sono i risultati dell'indagine "Abitudini e stili
di vita degli adolescenti" (edizione 2010), svolta dalla società
italiana di pediatria a livello nazionale su un campione di 1300 studenti
delle scuole medie di età compresa tra i 12 e i 14 anni i cui risultati
sono stati presentati il 2 dicembre a Salsomaggiore, nel corso del convegno
"La società degli adolescenti".
Alcuni dati parlano chiaro: i ragazzi che restano per oltre tre ore al giorno
connessi al mondo di internet, superano quelli che passano più di
tre ore al giorno davanti al televisore, rispettivamente il 17,2% contro
il 15,3%. Lo scorso anno, la percentuale dei "teledipendenti"
era pari al 22%, per cui la perdita di fascino del piccolo schermo è
un dato molto evidente.
Di fronte a questa emorragia di ascolti in termini quantitativi, che in
sé potrebbe avere un aspetto non negativo, emergono però alcuni
elementi su cui riflettere circa la qualità del consumo televisivo:
più della metà degli intervistati ha un televisore in camera
da letto e resta molto elevata l'abitudine di guardare la tv durante i pasti,
dichiarata dall'86% degli intervistati.
Questo dato fa supporre che i momenti di ritrovo familiare in occasione
del pranzo e, soprattutto, della cena non siano vissuti in tutta la loro
potenziale ricchezza di relazioni e di dialogo, ma vedano i membri della
famiglia - genitori compresi - dirottare la loro attenzione sul televisore
invece che sulle persone che si trovano insieme.
Se la televisione sembra progressivamente perdere il ruolo di "baby-sitter"
sempre disponibile, la crescita dell'utilizzo della rete qualifica internet
come una specie di surrogato affettivo e di scambio di relazioni. In questa
direzione, si può leggere l'affermazione di Facebook come protagonista
delle preferenze degli adolescenti: oltre il 67% degli interpellati ha un
profilo su questo "social network" con un aumento del 35% rispetto
all'anno scorso.
Cos'altro fanno in internet gli adolescenti italiani, oltre a condividere
informazioni e profili personali tramite Facebook? Utilizzano You Tube per
vedere o diffondere filmati oppure "chiacchierano" per via elettronica
negli appositi siti. Non manca chi usa la rete anche per cercare informazioni
utili allo studio (67,5%), ma si tratta di una percentuale inferiore a quanti
la utilizzano per scaricare e condividere musica, filmati e fotografie.
L'aumento di confidenza con il mondo di internet può prendere una
connotazione positiva se viene letto nel quadro di un migliore sfruttamento
di questo strumento da parte di giovani utenti sempre più esperti.
Apre però una serie di interrogativi se trova conferma l'ipotesi
che sempre più adolescenti preferiscano contattare i loro pari età
attraverso internet invece che in incontri personali. Se internet aiuta
a conservare e rinsaldare i legami, può essere positivo, ma se diventa
un surrogato, sarebbe meglio non lasciare che prenda troppo la mano ai nostri
ragazzi.
(giugno 2011)
Nessuno, nelle diverse età della vita, è scampato da qualche
momento di sconfitta: cose magari insignificanti agli occhi di altri, ma
devastanti per chi le ha subite perché si trattava di realtà
in cui avevano profondamente creduto, oppure perché è rimasta
delusa la fiducia riposta in chi avrebbe dovuto aiutare ad uscire dai guai.
Di qui, magari, un estraniarsi, un rinchiudersi in se stessi per cautelarsi
da qualsiasi possibile delusione. Forse vale la pena, dopo aver celebrato
la passione, la morte e la resurrezione di Gesù, volgere gli occhi
a Maria che ha condiviso tutto questo cammino e che stava attraversando
il momento più drammatico della sua esistenza: l'atteso dei secoli,
colui che avrebbe liberato e redento il suo popolo, sembrava rivelarsi una
promessa fallita. C'era, in questo suo camminare al fianco di Gesù
mentre saliva al Calvario, un'aria di disfatta. Ma questo suo accompagnare
il figlio in cui aveva riposto tutte le sue speranze, questa esperienza
dolorosa, non solo per i dolori del figlio, ma perché sembrava la
fine di tutto, ce la rende molto vicina perché pare condividere tante
nostre sconfitte e delusioni. Quanti oggi sono ancora perseguitati? La libertà
politica e di religione è solo una parola di cui molti si riempiono
la bocca, o che viene reclamizzata su internet, ma in concreto spesso non
esiste o viene conculcata. Quanti oggi muoiono perché neanche il
cibo che noi gettiamo nella spazzatura può giungere alla loro mensa?
La liberazione dalla fame del nostro pianeta è solo uno dei punti
di faraonici programmi, sempre inattuati, che saziano tutti meno che gli
affamati. Quanti uomini e donne vivono in situazioni precarie sotto tetti
di lamiera, o addirittura senza tetto, stesi sui marciapiedi? La casa, l'alloggio
per tutti resta una favola, mentre le seconde e terze case abbondano e costituiscono
vistosi investimenti.
Quanti piccoli sono vittime del turismo sessuale proprio nei paesi più
colpiti dai disastri naturali? Il cinismo di chi approfitta della povertà
altrui per soddisfare voglie inconfessabili, dovrebbe scandalizzare ogni
animo davvero umano. Quante famiglie vivono sull'orlo della miseria per
la mancanza di lavoro? Mentre c'è chi dice che la crisi è
passata, basta interrogare chi, anche qui, ha a che fare con i bisogni della
gente per accorgersi che, invece, le persone in difficoltà sono in
aumento. Gli interrogativi potrebbero moltiplicarsi e rappresentano le strade
sulle quali uomini e donne procedono nel tempo e nella storia. E Gesù,
insieme a sua madre, salendo lungo la sua via, ha raccolto e fatto sue tutte
queste vie per perdonare, per ridare fiducia e speranza. Fiducia e speranza
non solo perché scopriamo qualcuno vicino a noi che condivide le
nostre difficoltà, ma anche perché - lo dice la festa di oggi
- questo Qualcuno ha vinto il condensato di tutti mali del mondo che è
la morte e affida ai credenti il compito di compiere gesti concreti che
indichino a chi sta salendo la terribile via del calvario, che non sono
soli, c'è chi li sostiene, li aiuta, li incoraggia, come Maria accanto
a Gesù. (maggio 2011)
"Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate
la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere"
La liturgia della Parola della settimana santa ci introduce al mistero della
passione: essa ci aiuta a capire il senso della Pasqua di Gesù, il
vero "giusto" che offre se stesso. Le sofferenze di Cristo non
si chiudono nell'oscurità del sepolcro ma si aprono sulla vita e
sulla risurrezione: "Dio mi consegna come preda all'empio, e mi getta
nelle mani dei malvagi. Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha scosso, mi
ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; ha fatto di me il suo bersaglio
[...]. La mia faccia è rossa per il pianto e un'ombra mortale mi
vela le palpebre, benché non ci sia violenza nelle mie mani e sia
pura la mia preghiera. O terra, non coprire il mio sangue né un luogo
segreto trattenga il mio grido! Ecco, fin d'ora il mio testimone è
nei cieli, il mio difensore è lassù. I miei amici mi scherniscono,
rivolto a Dio, versa lacrime il mio occhio". Il Lezionario liturgico
evidenzia anche la dinamica sponsale che caratterizza l'intera settimana
santa, mentre il trascorrere dei giorni ci avvicina alla Pasqua. La sposa
(la Chiesa) rivive il mistero del suo sposo (il Signore Gesù) per
essere raggiunta dal suo amore che salva, per contemplare con gli occhi
della fede e del cuore questo mistero. Gli stessi temi ritornano anche nei
brani evangelici. "Vegliate in ogni momento pregando, perché
abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di
comparire davanti al Figlio dell'uomo": la sposa è chiamata
a una forte tensione spirituale verso l'incontro con il suo Signore. Segue
la presentazione delle vicende che precedono la Pasqua: i capi dei sacerdoti
tengono consiglio per arrestare Gesù e prendono accordi con Giuda,
affinché lo consegni loro. Dalla familiarità del Cenacolo
e dall'angoscia del Getsèmani, passando attraverso un giudizio iniquo,
giungeremo ai piedi della croce, al silenzio della deposizione e all'apparente
smarrimento del sepolcro, fino all'alba del giorno lucente della risurrezione,
lasciandoci guidare dalla stessa liturgia, vera scuola di preghiera: "Oggi,
Figlio dell'Eterno, come amico al banchetto tuo stupendo tu mi accogli.
Non affiderò agli indegni il tuo mistero; né ti bacerò
tradendo come Giuda, ma ti imploro, come il ladro sulla croce, di ricevermi,
Signore, nel tuo regno". (Aprile 2011)
PASQUA: UNA MEMORIA CHE APRE AL FUTURO
La Pasqua che celebreremo questo mese è prima di tutto un fatto,
un avvenimento della storia del quale gli apostoli sono stati i testimoni.
Dopo averlo seguito durante tutta la sua vita pubblica, dopo averlo ascoltato,
dopo aver assistito ai suoi miracoli, dopo averlo tradito fuggendo al momento
della sua passione, gli apostoli sono i testimoni di questo fatto decisivo,
definitivo di Gesù che è la sua resurrezione. Un fatto, quindi,
che si può accogliere o rifiutare, ma comunque un fatto di fronte
al quale non si può restare indifferenti e noi, nella Pasqua, facciamo
memoria di questo fatto: una memoria che, però, diventa anche motivo
di speranza per il futuro. Può sembrare strano che il futuro di ciascuno
possa essere, in qualche modo, legato al passato: spesso siamo tentati di
credere che il domani sia soltanto qualcosa che ci costruiamo da noi, che
ha origine soltanto da una serie di interventi e di progetti nostri sul
mondo e sulla storia. Ma, se guardiamo un po' più a fondo, ci accorgiamo
che la nostra vita è sì programmare il futuro, l'avvenire,
ma insieme è anche fedeltà a una storia che ci ha preceduto,
a un compito che ci è stato assegnato da un altro più grande
di noi. La nostra libertà che guarda avanti verso il futuro è
anche fedeltà ad un nome con cui Qualcuno ci ha chiamato al momento
del nostro battesimo. E allora, proprio nella memoria di questo fatto di
Pasqua ecco che troviamo forza e speranza per un futuro che, tante volte,
appare oscuro e minaccioso. Pasqua dice che noi troviamo il Risorto, il
Vivente, accanto a noi in ogni momento della vita. Pasqua testimonia, con
il fatto della resurrezione di Gesù, la presenza ormai continua di
Dio nel mondo: Dio non è più un Dio estraneo, ma è
un Dio presente che condivide tutte le ansie, le aspirazioni, i dolori dell'umanità
compresa la morte. È un Dio che, dopo la sua resurrezione, diventa
compagno inseparabile di ogni uomo e di ogni donna. E questo è un
annuncio di speranza: non siamo più soli ad affrontare le difficoltà
della vita. Il fatto di Pasqua dice che Dio, ormai, è sempre presente
e le condivide con noi. Testimoniare tutto questo è compito di ogni
cristiano, come lo è stato per gli apostoli: ormai ognuno deve sapere
che la disperazione non ha più ragione d'essere, che il peccato è
ormai perdonato perché Dio è con lui per sempre.
La Pasqua, allora, il fatto di Cristo risorto, è un invito a liberarsi
dall'apatia, dalla debolezza, dalla rassegnazione, dalla sfiducia perché
Gesù è davvero risorto ed è vicino a ciascuno che si
sforzi di camminare nella verità e nella giustizia. Ecco, quindi,
in che senso la fedeltà al passato, la memoria viva dei fatti del
passato, diventa motivo di speranza e di impegno per il futuro. (Aprile
2011)
CONVERTITETI E CREDETE AL VANGELO
Il primo richiamo della Quaresima è alla conversione. "Conversione"
è parola da prendersi nella sua straordinaria serietà e gravità
e insieme con la sorprendente novità che essa sprigiona; è
parola che mette a nudo e rimprovera la facile superficialità e la
comoda abitudinarietà del nostro vivere. In realtà, convertirsi
significa cambiare direzione nel cammino della vita: non con un piccolo
aggiustamento, ma con una vera e propria inversione di marcia. Conversione
è andare controcorrente, dove la corrente è lo stile di vita
che ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri
della mediocrità morale; e la conversione, allora, dice una nuova
situazione di vita.
Con la conversione ci si rivolge, ci si affida, ci si consegna al Vangelo,
al Vangelo vivente e personale che è Cristo Gesù. E' lui in
persona la meta finale e il senso profondo della conversione, è lui
la via sulla quale siamo chiamati a camminare nella vita, a camminare con
la sua luce che illumina e con la sua forza che muove e sostiene i nostri
passi.
In tal modo la conversione manifesta il suo volto più splendido e
affascinante: non è una semplice decisione morale, che rettifica
la nostra condotta di vita, ma è una scelta religiosa, che coinvolge
tutta la nostra persona in un incontro, in un abbraccio, in una comunione
intima con la persona viva e concreta di Gesù.
Ora il "convertitevi e credete al vangelo" non sta solo all'inizio,
ma accompagna tutti i passi della vita cristiana; è qualcosa che
permane rinnovandosi e che si diffonde ramificandosi in tutte le espressioni
della nostra vita. Ogni giorno è momento favorevole e di grazia,
perché ogni giorno ci sollecita e ci aiuta a rivolgerci e a consegnarci
a Gesù, a rimanere in lui, a condividerne la vita, a seguirlo nel
compimento quotidiano della volontà del Padre come unica grande legge
di vita. Sì, ogni giorno: anche quando non mancano le difficoltà
e le fatiche, le stanchezze e le colpe, anche quando siamo tentati di abbandonare
la strada della sequela di Cristo, il Figlio sempre obbediente al Padre.
Questa conversione permanente, con le sue esigenze di fedeltà e con
le sue possibilità di riuscita, trova nella liturgia una straordinaria
illustrazione con la pagina evangelica delle tentazioni di Gesù.
Chiediamo al Signore che ci liberi dal pericolo di dimenticare, banalizzare
e ridicolizzare la presenza del maligno nella nostra vita; che ci renda
sempre vigilanti di fronte alle insidie del male, pronti e coraggiosi di
fronte alla tentazione di preferire la nostra volontà a quella di
Dio; che ci doni la grazia e la gioia di partecipare alla vittoria di Cristo
sul tentatore, condividendo con lui il suo amore filiale e la sua obbedienza
generosa al disegno del Padre. (Marzo 2011)
Card. Dionigi Tettamanzi
QUARESIMA: TEMPO DI SOBRIETA'
Entrando nella Quaresima è prioritario sottolineare che siamo
chiamati a vivere in modo esemplarmente evangelico queste settimane, quasi
fossero poi il modello per tutte le altre settimane dell'anno. Dentro questo
vissuto viene posto il lievito della Pasqua del Signore, attraverso i riti
sacramentali, la celebrazione della Parola e della preghiera: il rito non
si stacca dall'esistenza, ma la dilata, cioè le conferisce tutta
la sua verità, il suo significato e, qualora fosse necessario, la
purifica. In questa prospettiva la Quaresima ci aiuta a sottolineare alcune
caratteristiche dell'esistenza quotidiana, evangelicamente vissuta. E' innanzitutto
un'esistenza che fa riferimento al mistero di Cristo, al suo donarsi al
Padre e di conseguenza al dono dello Spirito. Non a caso nella Quaresima
ambrosiana sono sospese tutte le feste dei santi, fatta eccezione quella
di San Giuseppe. Meditare più frequentemente la Bibbia, verificare
se la devozione alla Madonna e ai Santi è nella logica del cristocentrismo,
educarsi a pregare secondo la Liturgia delle Ore, per esempio, sono atteggiamenti
che allenano a condurre una esistenza cristianamente "centrata".
In secondo luogo dev'essere un'esistenza sobria. In altri secoli il digiuno
era un fatto molto rigoroso, oggi sembra completamente disatteso. Non sarebbe
il caso di pensare a un tipo di digiuno che comprenda pure la sobrietà
nell'uso della parola, nelle prese di posizione, nei giudizi, nel rifiuto
degli atteggiamenti estremizzanti? Esprimere il proprio parere senza offendere,
non giudicare le persone, educarsi a vivere la vita nella sua complessità,
riconoscere la fatica di chi deve prendere decisioni in contesti pluralistici,
tenere a cuore la concordia pur nella dialettica delle posizioni: tutto
questo è sobrietà e digiuno. E' un'esistenza donata. La Quaresima
si pone come preparazione alla celebrazione del Triduo pasquale e quindi
del dono che Cristo ha fatto di sé al Padre per la salvezza degli
uomini. Parlare del dono di sé non significa non riconoscere il proprio
valore e le proprie capacità. Siamo chiamati a coltivare questi valori,
in un certo senso ad "arricchirci", per creare attorno a noi e
per tramite nostro una rete di rapporti gioiosi, significativi, felici.
Tutto questo sembra quasi un'utopia se ci lasciamo guidare dai giudizi che
ricaviamo dagli strumenti di comunicazione che giocano la loro influenza
sull'esasperazione del conflitto sociale, culturale e religioso. Tuttavia
la logica delle beatitudini evangeliche ci pone in un'altra direzione, a
partire dalle nostre famiglie e dalle nostre comunità: sarebbe già
molto se le nostre parrocchie arrivassero alla Pasqua avendo sciolto alcuni
nodi conflittuali e avendo accentuato il donarsi scambievolmente gli uni
agli altri. Le iniziative di ciascuna parrocchia sono quanto mai opportune
per sostenere il cammino quotidiano dei fedeli perché la loro vita
sia in riferimento a Cristo, sobria e radicalmente donata. (marzo 2011)
"All'educazione vogliamo dedicare questo decennio": parole chiare
quelle dei vescovi italiani, nella consapevolezza che tutti siamo stati
educati. Da Dio, innanzitutto che ha dato la sua legge come insegnamento
e ha mandato suo Figlio (ce lo ha ricordato l'Avvento) come maestro. La
Chiesa è stata voluta da Gesù come madre e maestra per annunciare
a tutti il piano della salvezza e nella sua missione ha il dovere di occuparsi
dell'intera vita della persona umana, indicando dove sta l'autentica realizzazione
di ogni uomo e di ogni donna. Questa è l'opera educativa che, quindi,
ha insieme contenuti umani e spirituali. Con l'educazione la chiesa propone
tanti valori che sono autenticamente umani, ma questi valori non sono tutti
uguali e sullo stesso piano: ce ne sono tre al disopra di tutti, perché
ritenuti irrinunciabili, nel senso che o sono accettati insieme, o cade
la proposta cristiana. Sono il rispetto per ogni persona umana dal suo inizio
al suo termine, l'unione tra l'uomo e la donna fondata sul matrimonio, la
libertà religiosa. Affermare questi è fare educazione. "Chi
educa - si legge negli Orientamenti da poco pubblicati - è sollecito
verso la persona concreta, pronto a farsene carico con amore e premura costante":
e questo dice l'orizzonte entro il quale si colloca il prendersi cura, mediante
l'istruzione, il lavoro, la casa, l'assistenza nella malattia, ecc.
Nell'opera educativa la Chiesa fa cultura, contrapponendosi, ad esempio,
al nulla in cui spesso si vive: risultato di un modo di fare educazione
in cui chiamare il bene ed il male con il loro nome e aiutare a distinguerli,
corrisponderebbe a un condizionamento della libertà perché
- si dice - si dovrebbe essere neutrali, limitandosi a dare solo alcune
informazioni.
L'educazione della persona, inoltre, è resa particolarmente difficile
dalla prevalenza che è stata data ai sentimenti e alla spontaneità
perché nella persona il mondo delle emozioni - pure importante -
non può fare a meno della razionalità, la sola capace di dare
un senso all'esistenza e di orientare le scelte nella direzione che costruisce
effettivamente la persona umana.
Da non trascurare, tra le difficoltà educative, sono, per esempio,
l'insicurezza degli adulti nel proporre obiettivi credibili sui quali vale
la pena di costruire l'esistenza, la crisi di identità del primo
nucleo educativo che è la famiglia, come anche la sottovalutazione
del valore educativo della parrocchia e delle realtà ecclesiali.
Di fronte a questa situazione la comunità cristiana offre la sua
proposta educativa "il cui obiettivo fondamentale - scrivono i vescovi
- è promuovere lo sviluppo della persona nella sua totalità,
secondo la grandezza della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un
germe divino". Questo progetto si concretizza nello sviluppo di tutte
le dimensioni della persona, quelle spirituali e quelle fisiche, secondo
gli insegnamenti del vangelo e nella prospettiva della vita della società
di cui è membro, diventando così capace di vivere la fraternità
universale e il bene comune. (febbraio 2011)
"Educare alla pienezza della vita" è il titolo del messaggio
del Consiglio permanente dei vescovi italiani per la Giornata nazionale
della vita del prossimo 6 febbraio. "L'educazione è la sfida
e il compito urgente a cui tutti siamo chiamati, ciascuno secondo il proprio
ruolo"; di qui l'auspicio e l'impegno "per educare alla pienezza
della vita, sostenendo e facendo crescere, a partire dalle nuove generazioni,
una cultura della vita che la accolga e la custodisca, dal concepimento
al suo termine naturale, e che la favorisca sempre, anche quando è
debole e bisognosa di aiuto". Ricordando le parole di Benedetto XVI
nella lettera alla diocesi di Roma, del gennaio 2008, "alla radice
della crisi dell'educazione c'è una crisi di fiducia nella vita",
i vescovi sottolineano che "con preoccupante frequenza la cronaca riferisce
episodi di violenza: creature a cui è impedito di nascere, esistenze
brutalmente spezzate, anziani abbandonati, vittime di incidenti sulla strada
e sul lavoro". "Cogliamo in questo - continuano - il segno di
una estenuazione della cultura della vita, l'unica capace di educare al
rispetto e alla cura di essa in ogni stagione e particolarmente nelle sue
espressioni più fragili. Il fattore più inquietante è
l'assuefazione: tutto pare ormai normale e lascia intravedere un'umanità
sorda al grido di chi non può difendersi. Smarrito il senso di Dio,
l'uomo smarrisce se stesso: l'oblio di Dio rende opaca la creatura stessa".
Occorre, perciò, "una svolta culturale, propiziata dai numerosi
e confortanti segnali di speranza, germi di un'autentica civiltà
dell'amore, presenti nella Chiesa e nella società italiana. Tanti
uomini e donne di buona volontà, giovani, laici, sacerdoti e persone
consacrate, sono fortemente impegnati a difendere e promuovere la vita".
È proprio la bellezza e la forza dell'amore, chiariscono poi i vescovi,
"a dare pienezza di senso alla vita e a tradursi in uno spirito di
sacrificio, dedizione generosa e accompagnamento assiduo. Pensiamo con riconoscenza
alle tante famiglie che accudiscono nelle loro case i familiari anziani
e gli sposi che, talvolta anche in ristrettezze economiche, accolgono con
slancio nuove creature. Guardiamo con affetto ai genitori che, con grande
pazienza, accompagnano i figli adolescenti nella crescita umana e spirituale
e li orientano con profonda tenerezza verso ciò che è giusto
e buono ". Si sottolinea, poi, "il contributo di quei nonni che,
con abnegazione, si affiancano alle nuove generazioni, educandole alla sapienza
e aiutandole a discernere, alla luce della loro esperienza, ciò che
conta davvero". "Oltre le mura della propria casa - si legge nel
messaggio - molti giovani incontrano autentici maestri di vita: sono i sacerdoti
che si spendono per le comunità loro affidate, esprimendo la paternità
di Dio verso i piccoli e i poveri; sono gli insegnanti che, con passione
e competenza, introducono al mistero della vita, facendo della scuola un'esperienza
generativa ed un luogo di vera educazione". Ogni ambiente umano, animato
da una adeguata azione educativa, concludono, "può divenire
fecondo e far rifiorire la vita". (febbraio 2011)
La questione della vita rientra a pieno titolo nell'opera educativa perché
la sua accoglienza, la sua promozione, la sua tutela sono fondamenti dell'esistenza
come viene proposta dal Vangelo. Ne sono convinti i vescovi italiani che
scrivono, nel messaggio per la 33° Giornata della vita: "Auspichiamo
e vogliamo impegnarci per educare alla pienezza della vita, sostenendo e
facendo crescere, a partire dalle giovani generazioni, una cultura della
vita che la accolga e la custodisca dal concepimento al suo termine naturale
e che la favorisca sempre, anche quando è debole e bisognosa di aiuto".
L'opera educativa è sempre un impegno che vede coinvolti diversi
educatori: genitori, innanzitutto, sacerdoti e religiosi, catechisti ed
animatori, insegnanti e formatori. Pur con competenze diverse, ogni battezzato
ha ricevuto una personale chiamata per l'edificazione e la crescita della
comunità e questo fa sì che nella Chiesa ogni sforzo abbia
carattere comunitario.
La Chiesa è comunità educante: un'idea centrale anche nei
recenti "orientamenti" dei vescovi italiani per il prossimo decennio
sull'educazione. Infatti, la complessità del discorso educativo spinge
ad impegnarsi perché si realizzi una vera e propria alleanza tra
tutti coloro che hanno una responsabilità educativa.
Ma come lavorare insieme per educare alla pienezza della vita? Intanto occorre
che tutti siano consapevoli dell'urgenza di questo impegno e della sua priorità:
"con preoccupante frequenza - si nota nel messaggio per la Giornata
della vita - la cronaca riferisce episodi di efferata violenza: creature
a cui è impedito di nascere, esistenze brutalmente spezzate, anziani
abbandonati, vittime di incidenti sulla strada e sul lavoro".
Il fattore ancora più inquietante è l'assuefazione: fatti
gravi di violenza familiare o urbana appaiono normali, non di rado, perchè
chi vi assiste è indifferente o incapace di cogliere il grido di
chi non può difendersi. La difesa della vita non è un principio
"negoziabile", nel senso che non si possono immaginare casi in
cui questo possa essere applicato in parte o addirittura sospeso.
A questo si educa (o si dovrebbe educare) in famiglia, in parrocchia, a
scuola, nella società. Nessuno di questi ambiti è sovrapponibile,
perché ha la sua identità che lo rende complementare rispetto
agli altri, però è importante ricordare che l'educazione non
è solo trasmissione di valori e di principi, anche se nobili e grandi:
è anche testimonianza. Lo sanno i vescovi che pensano con riconoscenza
"alle tante famiglie che accudiscono nelle loro case i familiari anziani
e agli sposi che, talvolta anche in ristrettezze economiche, accolgono con
slancio nuove creature". Esprimono il loro affetto a quei genitori
che, con pazienza, accompagnano i figli adolescenti nella crescita umana
e spirituale e li orientano verso ciò che è giusto e buono;
a quei nonni che, si affiancano alle nuove generazioni educandole con sapienza
verso ciò che conta davvero. Anche grazie a loro risplende di bellezza
il volto della Chiesa maestra di verità e di vita. (febbraio 2011)
"Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace": sono parole di una antichissima benedizione sacerdotale contenuta nel libro dei Numeri, che vengono proclamate nella prima lettura della Messa di Capodanno: è la pace che ci auguriamo per il nuovo anno. La Chiesa, ripetendo queste parole antiche di migliaia di anni, intende dire che la pace affonda ancora e sempre le sue radici nella protezione di Dio: solo di fronte al volto di Dio possiamo sradicare le radici della violenza che abitano in noi e guarire le ferite che ogni giorno infliggiamo alla pace. Non è sufficiente, infatti, proclamare le pace se non sappiamo camminare insieme - al di là di ogni diversità e di ogni divisione - per scoprire con sguardo attento i semi di pace che il Signore dissemina anche nei luoghi più imprevedibili, ed è per questo che il primo giorno dell'anno la Chiesa invita a riflettere sul grande tema della pace che costituisce uno dei desideri più sani e più profondi dell'animo umano, ma che sembra continuamente smentito da scoppi improvvisi di violenza. Nella prospettiva di un nuovo anno occorre, quindi, rafforzare la convinzione che la pace è possibile, che va certamente chiesta come dono di Dio, ma che va anche costruita - giorno per giorno - attraverso le opere della verità, della libertà, della giustizia e dell'amore (che già nel 1963 Giovanni XXIII nell'enciclica "Pacem in terris" chiamava i pilastri della pace). L'inizio di un anno suggerisce una domanda piena di incertezza: quest'anno sarà davvero all'insegna della pace e di una ritrovata fraternità? Certo non possiamo prevedere il futuro, ma possiamo essere sicuri, innanzitutto, che ci sarà pace nella misura in cui l'umanità saprà riscoprire la sua vocazione ad essere una sola famiglia, in cui la dignità e i diritti delle persone prevalgono su ogni possibile differenza: di stato, di razza o di religione. In secondo luogo occorre convincersi che la pace è indissolubilmente legata alla solidarietà: nessuno può illudersi che la semplice assenza dello stato di guerra - anche se, evidentemente, è più che auspicabile - coincida necessariamente con una pace che duri. Non c'è e non ci può essere una pace vera se non è accompagnata da verità, libertà, giustizia e amore: risulta tristemente destinato al fallimento ogni progetto che, pur auspicando sinceramente la pace, non si impegni, nello stesso tempo, per uno sviluppo completo, integrale e solidale. È per questo che, all'inizio di un nuovo anno, la mancanza di libertà, la povertà, lo stato di precarietà in cui vivono miliardi di uomini e donne interpella sempre la nostra coscienza umana e cristiana.Ricordiamo le prime parole di Gesù risorto ai discepoli: "Pace a voi". Perché è venuto, anche in questo Natale, per unire ciò che era diviso risvegliando nell'umanità la sua vocazione all'unità, alla fraternità e, quindi in definitiva, alla pace. (gennaio 2011)
"La famiglia è il riflesso del mistero della Trinità.
L'amore che intercorre tra Padre, Figlio e Spirito Santo, viene vissuto,
riflesso, tra marito e moglie e in riferimento con i figli. La famiglia
si sente riflesso dell'amore della Trinità. Da qui viene il prendersi
cura: cioè, in questa relazione reciproca tra marito e moglie in
riferimento ai figli, si considera l'altro come una parte essenziale di
se stessi. Io senza l'altro sono una persona divisa a metà, una persona
incompleta. Prendersi cura dell'altro significa essere disponibile per l'altro
a 360 gradi, ma soprattutto significa dire: io sono qui, ci sono, e se ci
sono, ci sono per te. E allora, questo porta anche al superamento degli
individualismi, degli egoismi, del ritenere la famiglia o l'altro semplicemente
come una cellula puramente sociale. Se invece comincio a vedere l'altro
nella sua profondità, nella sua dignità, allora il "servo
per amore" viene fuori spontaneamente, senza bisogno che io me lo costruisca,
oppure senza bisogno di dovere dire a me stesso: sono tuo servo. No! Io
sono disponibile per te, io ci sono per te. In tutto questo, la coppia già
è famiglia. Nel momento in cui arrivano i figli, i figli completano
questo concetto di famiglia, questo essere dono l'uno per l'altro".
"Questo Paese sta reggendo, ancora una volta, perché le famiglie
sono parsimoniose, perché le famiglie non si sono indebitate, perché
le famiglie sanno risparmiare, sanno mettere da parte l'euro giorno dopo
giorno. Ecco: le nostre famiglie sanno fare la finanziaria. Io credo che
questo Paese dovrebbe dare una medaglia d'oro alla famiglia italiana, a
questa famiglia tanto bistrattata che ha fatto sì che questo Paese
reggesse la crisi. Gli altri Paesi hanno debiti certamente minori dei nostri,
però hanno in alcuni casi grandissimi indebitamenti privati. Noi
abbiamo un debito pubblico immenso, spaventoso, però abbiamo la fortuna
di avere una società civile, la famiglia soprattutto, che continua
a risparmiare. Credo che questo sia un dato di un valore enorme, e credo
che in questo campo i cattolici abbiano dato il loro contributo. Per anni,
il Forum delle famiglie, noi tutti, abbiamo ribadito e ribadito ancora che
la famiglia è il cuore di questo Paese, e la crisi l'ha mostrato
nuovamente. E dunque si attende una politica che finalmente la sostenga,
l'aiuti: soprattutto quelle famiglie che hanno tanti bambini e che rischiano
la povertà. Non è giusto che una Repubblica come la nostra
debba permettere l'impoverimento a coloro che fanno figli, che sono, ancora
una volta, la nostra speranza" (gennaio 2011)
Le festività natalizie parlano di Dio che non solo visita il suo
popolo, ma sceglie di dimorarvi in mezzo, di condividere le sue gioie e
le sue sofferenze. E questa sua venuta capovolge le attese ed i desideri
umani: mentre tante volte siamo tentati di ricorrere al denaro, al potere,
al piacere come le cose che possono dare successo alla vita, Gesù
non viene circondato dall'alone del potere ma nasce in un villaggio semisconosciuto
della Palestina ed è una giovane e povera ragazza di Nazaret a dare
un corpo umano a Dio-con-noi.
Il papa Benedetto XVI, nell'angelus di domenica scorsa, ha detto che la
nascita di Gesù, il Natale "non è una favola per bambini,
ma la risposta di Dio al dramma dell'umanità in cerca della vera
pace". E lo sguardo non può non andare a Betlemme, un villaggio
"così piccolo per essere tra i villaggi di Giuda", però
testimone del "grande evento". Dice il Papa: c'è "un
disegno divino che comprende e spiega i tempi e i luoghi della venuta del
Figlio di Dio nel mondo". Ed è "un disegno di pace, come
annuncia il profeta parlando del Messia".
Di conseguenza, Betlemme diventa lei stessa "una città simbolo
della pace, in Terra Santa e nel mondo intero". Tuttavia, ai giorni
nostri, la città non rappresenta "una pace raggiunta e stabile,
ma una pace faticosamente ricercata ed attesa". Il pensiero va al viaggio
che Benedetto XVI ha compiuto nel maggio scorso quando ha potuto visitare
non solo la città ma anche un campo profughi e attraversare, dalla
porta di Rachele, il muro che divide Israele dai territori dell'Autorità
nazionale palestinese. Allora ha chiesto di non perdere la speranza, di
spezzare la spirale della violenza, di mettere fine ad ostilità che
una fine sembrano non averla e di portare pace.
Ha detto il Papa domenica scorsa: "Dio, però, non si rassegna
mai a questo stato di cose, perciò anche quest'anno, nel mondo intero,
si rinnoverà nella Chiesa il mistero del Natale, profezia di pace
per ogni uomo, che impegna i cristiani a calarsi nelle chiusure, nei drammi
- spesso sconosciuti e nascosti - e nei conflitti del contesto in cui si
vive, con i sentimenti di Gesù per diventare ovunque strumenti e
messaggeri di pace".
Il Natale, dunque, non è una favola per bambini, ma porta la vera
pace: "A noi spetta aprire, spalancare le porte per accoglierlo. Impariamo
da Maria e Giuseppe: mettiamoci con fede al servizio del disegno di Dio.
Anche se non lo comprendiamo pienamente, affidiamoci alla sua sapienza e
alla sua bontà. Cerchiamo prima di tutto il Regno di Dio, e la Provvidenza
ci aiuterà". (dicembre 2010)
Questo mese entriamo nell'Avvento, "nel ciclo annuale che presenta
tutto il mistero di Cristo, dall'Incarnazione e Natività fino all'Ascensione,
al giorno di Pentecoste e all'attesa della beata speranza e del ritorno
del Signore". Possiamo dire che l'atteggiamento che segna questo tempo
per il credente è la pazienza; l'attesa della realizzazione delle
promesse di bene. Pazienza in vista della liberazione, del "risollevatevi
e alzate il capo". "Chi entra in casa nostra ammiri noi piuttosto
che le suppellettili", scriveva Seneca. Come dire, siamo sommersi dalle
cose esteriori, dal superfluo: nei media è già la frenesia
degli acquisti, nonostante la crisi, ad avere spazio. Il vangelo dice di
stare bene attenti che "i cuori non si appesantiscano in dissipazioni,
ubriachezze e affanni della vita". Il tempo di Avvento è, dunque,
invito a non guardare alla facciata, ma ad andare in profondità,
a cogliere il significato interiore. Il mondo, ha detto il Papa all'Angelus,
"ha bisogno soprattutto di speranza: ne hanno bisogno i popoli in via
di sviluppo, ma anche quelli economicamente evoluti. Sempre più ci
accorgiamo che ci troviamo su un'unica barca e dobbiamo salvarci tutti insieme.
Soprattutto ci rendiamo conto, vedendo crollare tante false sicurezze, che
abbiamo bisogno di una speranza affidabile, e questa si trova solo in Cristo,
il quale, come dice la lettera agli Ebrei, è lo stesso ieri e oggi
e per sempre".
Cristo "è venuto in passato, viene nel presente, e verrà
nel futuro. Egli abbraccia tutte le dimensioni del tempo, perché
è morto e risorto, è il Vivente e, mentre condivide la nostra
precarietà umana, rimane per sempre e ci offre la stabilità
stessa di Dio. È carne come noi ed è roccia come Dio. Chiunque
anela alla libertà, alla giustizia, alla pace, può risollevarsi
e alzare il capo, perché in Cristo la liberazione è vicina".
Gesù Cristo, ha affermato ancora Benedetto XVI, "non riguarda
solo i cristiani, o solo i credenti, ma tutti gli uomini, perché
egli, che è il centro della fede, è anche il fondamento della
speranza. E della speranza ogni essere umano ha costantemente bisogno".
Per il credente, la speranza viene dalla certezza che il tempo non si ferma
il venerdì sulla croce e quindi guarda avanti al giorno della resurrezione,
ma ogni uomo ed ogni donna sente profondamente di avere bisogno di qualcosa
in cui sperare. Qualcosa che dica che la vita ha un senso, che non è
un'avventura assurda e, quindi, che vale la pena di essere onesti, impegnati,
coraggiosi. Avvento: tempo per risuscitare la speranza, magari anche attraverso
qualche anticipazione, piccola ma concreta, di attenzione, di solidarietà,
di condivisione verso chi maggiormente sente il peso e la difficoltà
della vita. Anche qui da noi le situazioni di precarietà economica
per la mancanza di lavoro non solo non sono diminuite, ma aumentano: Natale,
Gesù che viene, forse è il momento opportuno per ricordarcene.
(novembre 2010)
Estate, tempo di vacanze, un tempo privilegiato, libero da orari e da
impegni di lavoro, un tempo che apre al gioco, rilassa con il riposo e,
forse, riporta indietro la memoria ai tempi di quando eravamo bambini.
Le vacanze al mare, la spiaggia con la sabbia che a un certo punto si confonde
con l'acqua e faceva di noi bambini dei grandi costruttori di castelli imponenti
con torri, fossati di difesa, mura forse non fatte col filo a piombo, ma
resistenti.
Si imparava che ogni giorno bisognava tornare a costruire perché
la costruzione non resisteva al sopraggiungere dell'alta marea che, a poco
a poco se la portava via, ma che era sufficiente anche soltanto il calore
del sole per provocare crepe profonde e far crollare tutto l'edificio. Si
imparava la fatica del lavoro di ogni giorno, della ripresa, della continuità
senza prendersela troppo di dover ripetere continuamente l'impresa anzi
godendo molto quando era di nuovo finita.
E quando si arrivava presto in spiaggia e non c'era ancora molta gente si
sperimentava un grande silenzio dove le voci si sentivano lontane e c'era
solo il soffio del vento e lo sciabordio delle onde.
Magari, in quel momento, veniva in mente il racconto della Bibbia dove si
racconta che il Creatore aveva impastato l'uomo con la sabbia e con il fango.
Ma era una figura priva di vita: solo il soffio del Creatore, richiamato
dal vento, aveva infuso in quella costruzione di terra lo Spirito, aveva
fatto di quella statua di fango una creatura vivente.
È in questo momento, in questa pausa di silenzio, che lo Spirito,
inavvertito ai nostri sensi ma così potente, dona la vita.
Ma ci sono anche altri momenti: il silenzio di fronte all'imponenza delle
montagne mentre si sale per un sentiero, rotto - anche qui - soltanto dallo
spirare del vento che richiama quell'altro soffio che dà la vita
e invita ad andare oltre quel momento, ad aprirci verso orizzonti più
ampi e più profondi. Questi silenzi, possibili solo nei momenti di
pausa e di tranquillità fuori di ogni agitazione e confusione, dicono
che c'è qualcosa di più oltre il momento presente, oltre i
nostri castelli di sabbia che vanno continuamente rifatti.
C'è la ricchezza del mistero di Dio che dà sostanza, stabilità,
fondamento alla nostra vita che fa superare la precarietà dei castelli
di sabbia che ci costruiamo noi. Viene alla mente quel bellissimo particolare
dell'affresco della Creazione, opera di Michelangelo, nella Cappella Sistina
a Roma: le due mani che quasi si toccano: quella languida, ancora torpida
di Adamo e quella piena di forza di Dio che fa scoccare tra lui ed Adamo
la scintilla della vita.
Un castello di sabbia, uno scenario di montagne alte e meravigliose, ma
soprattutto un attimo di silenzio: sono le cose che ci vengono offerte anche
quest'anno dal tempo di vacanza che diventa così l'occasione per
rimandarci alle realtà più profonde, all'origine della vita.
(settembre 2010)
Ferragosto è considerato da sempre il punto centrale del periodo
di vacanza: anche se, magari, per motivi economici (la crisi serpeggia anche
nelle nostre tasche) il tempo dedicato al riposo e allo svago in un luogo
diverso da quello solito di residenza si abbrevia, tuttavia nelle due settimane
centrali del mese di agosto si nota ad occhio nudo un movimento minore di
traffico e di presenze nella città.
I mezzi di informazione in queste settimane estive sembra abbiano concentrato
la loro attenzione su eventi tragici e incidenti, ma ciò non toglie
che giorni tradizionalmente dedicati alla distensione, siano invece funestati
da notizie che ricordano la presenza continua della morte. Sarà una
riflessione un po' "fuori moda", ma - forse vale la pena di non
dimenticarlo - questi avvenimenti ci ricordano che purtroppo la morte non
va in ferie, non guarda in faccia a nessuno, che la vita non è assicurata
a nessuno neanche per quelle caratteristiche che sembrerebbero garantirla
di più: la salute, l'efficienza, la ricchezza, la forza, la giovinezza.
La vita è un dono grande che ci è stato fatto, ma la custodiamo
dentro recipienti molto fragili, che richiedono attenzioni e cautele e che,
purtroppo, possono rompersi facilmente e in modo imprevedibile. Quando nel
Vangelo il Signore invita - anzi raccomanda - di essere sempre pronti, in
fondo non fa che rendere evidente una verità, che forse, tante volte,
facciamo fatica a ricordare.
Ma a Ferragosto celebriamo anche la festa della Madonna Assunta. Una festa
che apre alla speranza: in un mondo, di gente delusa, frastornata, tentata
troppe volte di lasciarsi cadere le braccia oppure che pare mettere tutta
la sua fiducia soltanto nei numeri dell'Enalotto, Maria presente presso
Dio anche con il suo corpo invita a sperare in qualcosa che va al di là
di obiettivi precari ed illusori, in una vita di comunione con Dio per noi
e per tutti.
Maria invita ad essere come lei e come tanti uomini e donne che, con le
loro preghiere, l'offerta delle loro sofferenze, con gesti semplici di solidarietà
e di servizio, continuano, in tutti gli angoli della terra a sperare, anche
là dove sembra che non ci sia nessuna speranza. (agosto 2010)
Nessuno, nelle diverse età della vita, è scampato da qualche
momento di sconfitta: cose magari insignificanti agli occhi di altri, ma
devastanti per chi le ha subite perché si trattava di realtà
in cui avevano profondamente creduto, oppure perché è rimasta
delusa la fiducia riposta in chi avrebbe dovuto aiutare ad uscire dai guai.
Di qui, magari, un estraniarsi, un rinchiudersi in se stessi per cautelarsi
da qualsiasi possibile delusione. Forse vale la pena, dopo aver celebrato
la passione, la morte e la resurrezione di Gesù, volgere gli occhi
a Maria che ha condiviso tutto questo cammino e che stava attraversando
il momento più drammatico della sua esistenza: l'atteso dei secoli,
colui che avrebbe liberato e redento il suo popolo, sembrava rivelarsi una
promessa fallita. C'era, in questo suo camminare al fianco di Gesù
mentre saliva al Calvario, un'aria di disfatta. Ma questo suo accompagnare
il figlio in cui aveva riposto tutte le sue speranze, questa esperienza
dolorosa, non solo per i dolori del figlio, ma perché sembrava la
fine di tutto, ce la rende molto vicina perché pare condividere tante
nostre sconfitte e delusioni.
Quanti oggi sono ancora perseguitati? La libertà politica e di religione
è solo una parola di cui molti si riempiono la bocca, o che viene
reclamizzata su internet, ma in concreto spesso non esiste o viene conculcata.
Quanti oggi muoiono perché neanche il cibo che noi gettiamo nella
spazzatura può giungere alla loro mensa? La liberazione dalla fame
del nostro pianeta è solo uno dei punti di faraonici programmi, sempre
inattuati, che saziano tutti meno che gli affamati.
Quanti uomini e donne vivono in situazioni precarie sotto tetti di lamiera,
o addirittura senza tetto, stesi sui marciapiedi? La casa, l'alloggio per
tutti resta una favola, mentre le seconde e terze case abbondano e costituiscono
vistosi investimenti. Quanti piccoli sono vittime del turismo sessuale proprio
nei paesi più colpiti dai disastri naturali? Il cinismo di chi approfitta
della povertà altrui per soddisfare voglie inconfessabili, dovrebbe
scandalizzare ogni animo davvero umano. Quante famiglie vivono sull'orlo
della miseria per la mancanza di lavoro? Mentre c'è chi dice che
la crisi è passata, basta interrogare chi, anche qui, ha a che fare
con i bisogni della gente (centri di ascolto, mense che distribuiscono almeno
un pasto al giorno) per accorgersi che, invece, le persone in difficoltà
sono in aumento.
Gli interrogativi potrebbero moltiplicarsi e rappresentano le strade sulle
quali uomini e donne procedono nel tempo e nella storia. E Gesù,
insieme a sua madre, salendo lungo la sua via, ha raccolto e fatto sue tutte
queste vie per perdonare, per ridare fiducia e speranza.
Fiducia e speranza non solo perché scopriamo qualcuno vicino a noi
che condivide le nostre difficoltà, ma anche perché - lo dice
la festa di oggi - questo Qualcuno ha vinto il condensato di tutti mali
del mondo che è la morte e affida ai credenti il compito di compiere
gesti concreti che indichino a chi sta salendo la terribile via del calvario,
che non sono soli, c'è chi li sostiene, li aiuta, li incoraggia,
come Maria accanto a Gesù. (maggio 2010)
Dal 10 aprile al 23 maggio si terrà a Torino l'esposizione della
Sindone, cioè quel telo le cui origini risalgono ai tempi di Gesù
e nel quale è stato avvolto un uomo crocifisso che reca sul suo corpo
- e ne ha lasciato sul telo le tracce - i segni corrispondenti alla Passione
del Signore. Una reliquia su cui si è studiato e discusso molto per
capire se era effettivamente "quel" telo che ha avvolto il corpo
del Crocifisso dopo la morte, ma che conserva ancora oggi, insieme al suo
mistero anche il suo fascino. Ma al di là del rilievo mediatico che
avrà indubbiamente l'avvenimento e della grande massa di persone
che, si prevede, affluirà a Torino, non sembra inutile - soprattutto
nel periodo di Quaresima - richiamare l'attenzione su questo documento che
si ricollega alla passione, morte e resurrezione del Signore: il pilastro
centrale della fede cristiana.
Non abbiamo altro re all'infuori di Cesare (Gv 19,5): tutto prende avvio
da questa frase. La menzogna gratuita, la condanna ingiusta, l'ipocrisia
di chi stipula una momentanea alleanza col nemico per usare di una autorità
(pur consapevole di condannare un innocente) e sbarazzarsi di un personaggio
scomodo. Gli amici spariscono all'istante, la macchina della morte si mette
in moto fino all'esito della morte in croce.
È questa la storia che ha segnato un millennio, perché l'inchiesta
più viva che mai su un cadavere mai trovato ed irreperibile, si snoda
attorno ad una reliquia di stoffa lunga quattro metri e trentasette, larga
un metro e undici che reca l'immagine di un uomo alto un metro e ottanta,
segnato dalle ferite della crocifissione. E i segni sono proprio quelli
riportati dai Vangeli: i solchi lasciati dai flagelli, le tracce di sangue
in corrispondenza dei fori aperti dai chiodi sono chiaramente visibili.
Il telo arrivato a noi attraverso i secoli, rimane una discussione sempre
aperta tra coloro che pensano che potrebbe trattarsi del lenzuolo che ha
avvolto il corpo di Gesù e coloro che rifiutano in modo aprioristico
l'autenticità sella Sindone. L'incontro di giovedì prossimo
non darà certamente risposte risolutive, che naturalmente nessuno
può dare, però pone, come sempre, di fronte a domande inquietanti
che comunque chiedono una risposta.
Certo, la nostra fede non ha bisogno di prove materiali: abbiamo conosciuto
Gesù e la sua vicenda attraverso testimoni attendibili e in lui abbiamo
riconosciuto l'amore di Dio che vuole incontrarsi con noi, motivo per tutti
di fiducia e di speranza. L'Uomo della Sindone, tuttavia, ci interpella
con la sua inquietante presenza e ci sollecita - e la nuova ostensione giunge
opportuna - ad approfondire la nostra riflessione. (Pasqua, aprile 2010)
Qualche giorno fa ci sono stati momenti di vento impetuoso che ha seccato
i fiori che annunciavano la primavera cancellando il ricordo di tanta neve
caduta. È seguita la pioggia a completare la distruzione di tante
corolle.
È un po' la parabola della vita: sembra rigogliosa e verde ma al
primo soffio di vento ingiallisce e scompare. Il vento che spazza la nostra
società viene da tante direzioni, e le travolge rapidamente: il vento
di una economia che sta cedendo, la sarabanda delle cifre dei licenziati,
degli esuberi, l'incubo della quotidiana sopravvivenza. Il vento tagliente
che logora l'amore di un uomo e di una donna che hanno costruito una famiglia
e la vedono minata alle fondamenta da una legislazione che banalizza tutto.
Il vento nero di chi abusa dei piccoli bimbi venduti per qualche soldo,
della fiducia di chi li affida.
Ma questi venti carichi di disperazione si scontrano con un altro vortice:
la moda che detta la sua legge illusoria, il mondo irreale creato dai media
di uomini e donne che non esistono ma vengono costruiti, smontati e rifatti.
Le costruzioni faraoniche a fronte di chi deve vivere in una tenda perché
ha la casa distrutta da imprevedibili eventi naturali.
Spazzature che raccolgono avanzi che non sono rifiuti, ma avanzi di stomaci
troppo pieni e di bocche troppo sazie, quando ancora tanti nel mondo vengono
meno per denutrizione e le code alle mense dei poveri si allungano di giorno
in giorno, quando i barconi affrontano il mare carichi di disperati che
cercano un luogo dove non lasciarsi morire.
Le certezze che ci hanno illuso fin dall'infanzia si sfaldano e però
non intaccano la convinzione di essere onnipotenti, di non aver bisogno
di niente e di nessuno perché ormai scienza e tecnologia possono
tutto, salvo poi essere smentire da un improvviso terremoto.
Come vivere la Pasqua in questo panorama? La coscienza - se non è
inesistente - dovrebbe interrogarsi e la risposta non sta nel torpore e
nell'assuefazione. La risposta è altrove, anzi è un Altro.
Chi vive la propria esistenza non nell'accumulo - dell'illusione di una
eterna giovinezza, del conto in banca, ecc. - ma nella relazione con Gesù
e con gli altri potrà diventare un vero dono pasquale, un uovo che
contiene la sorpresa della resurrezione dopo la morte. Il Figlio di Dio
entrando nella storia ne ha acquisito ogni aspetto, ha rispettato la libertà
della persona e incentivato la sua creatività, ma ha anche detto
con parole chiare che il percorso della vita umana è un percorso
pasquale. Pasqua significa passare oltre perché l'angelo saltò
le case degli ebrei segnate con il sangue dell'agnello, indica liberazione
dalla schiavitù, portare le persone ad essere se stesse senza essere
affascinate da nessun potere.
Gesù Cristo ha vissuto la sua Pasqua, è passato per primo
prendendo su di sé il peso della morte, del distacco dal nostro corpo
e ha indicato a chi lo segue una via di donazione, di rispetto per gli altri,
di servizio, di corresponsabilità. Questo non umilia la persona,
anzi la apre alla comunione: uomini e donne sono salvati da Gesù,
ma devono operare la loro salvezza insieme con tutti, non fidandosi delle
illusioni che vengono fatte balenare davanti, ma scorgendo la luce che viene
dalla pietra rovesciata del sepolcro: Gesù stesso risorto. (Pasqua,
aprile 2010)
La Quaresima che è appena iniziata è segnata da alcune
caratteristiche fondamentali. Innanzitutto un comportamento che pratica
la giustizia e l'onestà come un valore in sé, non in vista
di alcuni fini da raggiungere, vincendo la tentazione dell'esibizionismo
che sembra diffondersi sempre più nella società di oggi, e
specialmente nei momenti che preludono ad un importante appuntamento elettorale.
Così pure il gesto di carità che contiene un valore in sé
perché fa parte della natura di Dio e quindi anche di quella umana
(che di Dio è immagine e somiglianza), senza attendersi nessuna ricompensa.
E ancora la preghiera - particolarmente raccomandata in Quaresima - fatta
con un atteggiamento di riservatezza che evita l'ostentazione, non solo
nei luoghi e nelle parole, ma anche nei gesti. E, infine, il digiuno, la
rinuncia come occasione per recuperare la consapevolezza di essere liberi
e non di essere ammirati o lodati.
Atteggiamenti - la giustizia e l'onestà, il dono, la preghiera, il
digiuno - che sono i luoghi comuni del vivere nei quali deve emergere uno
stile del cristiano che vince la superbia, l'individualismo, la spettacolarità.
Proprio dalla Quaresima (il rito delle ceneri ricorda che noi siamo polvere)
viene un invito forte e chiaro a vincere l'ostentazione: quella che emerge
nelle relazioni, nelle parole e nei gesti; che ritroviamo nella politica
quando lo spettacolo o l'effetto è più importante dei problemi
e della verità delle cose; che ricompare quando vince la prepotenza
o l'oppressione; che non è distante dai luoghi dell'ingiustizia e
dello sfruttamento; che cavalca il pregiudizio e la discriminazione; che
cerca nemici nelle persone, sposa forme inutili di consumo e che si accompagna
agli sprechi. Insomma, tutte le volte che si dimenticano il limite, il rispetto
dell'altro, la giustizia nei rapporti con Dio e con gli altri, l'ostentazione
cresce.
Per vincere l'ostentazione, quindi, occorre innanzitutto ritrovare la paternità
di Dio, sentirsi a casa in mezzo alle persone, costruire la fraternità.
E la fraternità cresce quando cresce il rispetto dei diritti, la
ricerca del superamento di ciò che divide, quando non si accetta
lo sfruttamento, quando si ama la città facendo nostre "le attese
della povera gente" (come diceva Giorgio La Pira). La fraternità
cresce nel dono, nella condivisione che fa superare le differenze, le distanze
e accompagna l'incontro - tante volte difficile - con chi è nuovo,
o viene da lontano, con chi fa fatica, con chi soffre, con chi è
solo.
La Quaresima diventa un cammino per ricostruire la fraternità ai
piedi della croce: la fraternità cresce nel sacrificio, nella capacità
di rinunciare come di attendere, di chi sa dare un valore profondo alle
cose, di chi conosce il valore della gratuità. Così a Quaresima
diventa un percorso educativo che dalla paura e dalla diffidenza porta all'incontro;
è un percorso di tutela dei diritti di tutti, è un percorso
di lotta alla povertà e di condivisione. (Quaresima 2010)
Nel messaggio per la Giornata mondiale della pace (1° gennaio
2010), il Papa auspica una rinnovata alleanza tra uomo e ambiente, chiede
alla comunità internazionale un mondo senza armi nucleari e ai singoli
una revisione del proprio stile di vita
Una "revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo"
per "correggerne le disfunzioni e le distorsioni". Per fare posto,
invece, a un modello "fondato sulla centralità dell'essere umano,
sulla promozione e condivisione del bene comune, sulla responsabilità,
sulla consapevolezza del necessario cambiamento degli stili di vita e sulla
prudenza". A chiederlo è Papa Benedetto XVI nel Messaggio per
la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2010, intitolato "Se
vuoi coltivare la pace, custodisci il creato".
Nel testo Pontefice prende in esame "le crescenti manifestazioni di
una crisi che sarebbe irresponsabile non prendere in seria considerazione".
"Come rimanere indifferenti - si chiede - di fronte alle problematiche
che derivano da fenomeni quali i cambiamenti climatici, la desertificazione,
il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole, l'inquinamento
dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità,
l'aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali
e tropicali?". Il Papa ricorda "i doveri derivanti dal rapporto
dell'uomo con l'ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti,
il cui uso comporta una comune responsabilità verso l'umanità
intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future". "Se,
infatti, a causa della crudeltà dell'uomo sull'uomo - scrive nel
documento - numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull'autentico
sviluppo umano integrale - guerre, conflitti internazionali e regionali,
atti terroristici e violazioni dei diritti umani - non meno preoccupanti
sono le minacce originate dalla noncuranza - se non addirittura dall'abuso
- nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito. Per
tale motivo è indispensabile che l'umanità rinnovi e rafforzi
quell'alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell'amore
creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino".
Benedetto XVI invita poi la comunità internazionale e i governi nazionali
a dare gli opportuni segnali per contrastare in modo efficace "quelle
modalità d'utilizzo dell'ambiente che risultino a esso dannose".
Chiede infine alla comunità internazionale "un mondo privo di
armi nucleari" e a ciascuno una revisione dei "comportamenti",
degli "stili di vita e i modelli di consumo" perché "tutti
siamo responsabili della protezione e della cura del creato". (gennaio
2010)
Ha ancora senso la festa della famiglia?
Nella Epifania lo splendore della gloria del Foglio di dio si è a noi manifestato. Ma il suo è anche un mistero di umiltà: la sua gloria si spegne. Basta varcare la soglia di Nazareth: qui scopriamo il discendere di Dio in mezzo a noi, il suo avvicinarsi a noi, il suo condividere l'esperienza umana. In particolare non è mancata a Gesù l'esperienza piena della realtà e della vita familiare. Quelli del paese lo chiamavano il figlio del falegname. Nessun fatto di rilievo pone la sacra famiglia all'attenzione dei concittadini. Ma è precisamente per questo che la famiglia di Nazareth si rende fonte di grazia e modello per tutte le famiglie cristiane. Celebrando la festa della famiglia la Chiesa ci propone l'esempio di Gesù, Maria e Giuseppe in uno degli episodi più conosciuti del vangelo: la perdita e il ritrovamento di Gesù nel tempio. Quale insegnamento ci viene da questo fatto? Il primo suggerimento, quello più immediato e spontaneo che possiamo cogliere è la PREGHIERA. Il Vangelo ci parla di Gesù dodicenne che con i suoi sale al tempio. E' la risposta a Dio che chiede il culto. E' l'intera famiglia che vive il suo spirito religioso e che lo esprime comunitariamente nella preghiera familiare. Questo è senz'altro un valore fondamentale per la famiglia cristiana: la sua prima vocazione non differisce dalla vocazione di ogni creatura e cioè la gloria di Dio. Il sacramento del Matrimonio fa degli sposi prima e dei genitori poi una comunità destinata a glorificare Dio. ( famiglia piccola Chiesa ). E' nella famiglia che trovano verifica le parole di Gesù: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro". Ma quante sono le famiglie che oggi fanno l'esperienza della presenza di Gesù attraverso la preghiera. Non come una volta ma mi sembra di poter dire che ancora oggi ci sono delle famiglie che pregano insieme. So con certezza di qualche famiglia che sa trovare dei momenti di preghiera insieme tra le mura di casa. E quanto è bello vedere alla domenica o nelle feste più importanti tutta la famiglia insieme partecipare alla Messa. Sono questi segni di grande speranza. Là dove si prega è presente il Signore. Ma dice ancora il vangelo: " Gesù discese con loro e stava sottomesso a Maria e Giuseppe". E' questo un secondo valore altrettanto importante come la preghiera: la ricerca della VOLONTA' DI DIO. Lo deve ricordare anche la famiglia cristiana. Essa è aperta al mondo intero e prende parte alla missione salvifica della Chiesa in questa forma umile e nascosta: la forma dei doveri quotidiani, svolti con spirito religioso, e con spirito di servizio. Questo ideale cristiano possa diventare realtà presso tante nostre famiglie. (gennaio 2010)
Possiamo chiederci qual è il segno del Natale, cosa ci aspettiamo
di vedere e sentire a Natale. Ricordiamo la pagina del Vangelo che leggiamo
a Natale: Gesù aveva occupato una stalla, una di quelle stalle naturali
senza padroni, perché non l'avevano accolto e lì era nato
da una vergine, e non c'era niente, e l'hanno messo in una mangiatoia avvolto
in poche fasce.
E questo, dice un angelo ai pastori, è il segno del salvatore che
è nato: "troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in
una mangiatoia". E allora, se qualcuno si domanda dov'è il segno
del Natale non avremmo che da ripetere le parole dell'angelo: è un
bambino deposto in una mangiatoia, avvolto in poche fasce. Il Signore c'è
perché c'è un bambino rifiutato da tutti, perché è
in una mangiatoia, perché è avvolto in poche fasce ed è
andato a nascere dove si ricoverano gli animali, e quella stalla non ha
padrone, perché il Signore che viene al mondo non ha padroni: né
re, né potenti, né gente che grida o di successo.
Ma ci sono anche altri segni del Natale. C'è la crisi che tiene in
ansia tante famiglie per la situazione economica, per il posto di lavoro,
anche qui a Varese, nella nostra zona. Siamo preoccupati per la violenza
che imperversa ancora intorno a noi.
Non chiudiamo gli occhi, non facciamo finta di ignorare queste e tante altre
difficoltà. Eppure c'è qualcosa in questo giorno, di ancora
più misterioso di quello che è apparso più di duemila
anni fa: c'è nell'animo una bontà strana, una bontà
misteriosa. Dicono che la gente è cattiva e qualche volta la vita
è così dura che vien voglia di dire: è proprio vero,
non siamo buoni. Eppure credo che a Natale nessuna abbia paura; abbia paura
del vicino, di qualcuno che è un concorrente o un avversario: c'è
un'aria di bontà diffusa nel cuore.
Qualcuno dirà: poesia, sentimento. Chiamiamolo come vogliamo però
a Natale ci si sente buoni. Perché? La spiegazione la sentiamo nella
lettera di S. Paolo a Tito: "È apparsa la grazia (la bontà)
di Dio" (2,11). Qualcosa di buono deve essere davvero passato nel mondo,
se a distanza di più di duemila anni, portiamo ancora nel cuore un
segno di questa bontà.
La gioia del Natale non viene dagli addobbi, dalle luminarie, viene dall'aver
dato la mano a qualcuno cui l'avevamo sempre rifiutata, viene dall'aver
perdonato qualcuno con cui avevamo dei rancori, viene dall'esserci ricordati
che vicino a noi c'è qualcuno che soffre, viene dall'esserci ricordati
che non si può star bene - non solo a Natale ma sempre - quando c'è
vicino a noi chi non ha quello che avrebbe diritto di avere.
E questa gioia viene da quel bambino che nasce a Natale, perché ogni
volta che cancelliamo il Natale, il nome di Gesù, il suo vangelo,
la rivelazione che ha portato, la possibilità che ci ha dato di uscire
dal male; quando cancelliamo dalla nostra vita qualcuna di queste cose,
ricominciamo ad avere paura.
Ecco, allora, il segno del Natale: è Gesù che parla al cuore
di ciascuno attraverso la sua gioia. Buon Natale! (dic. 2009)
In una stagione che abbonda - e non solo nei mezzi di comunicazione sociale
- di parole gridate, la scelta del silenzio e della riflessione che ci viene
suggerita dall'Avvento in preparazione al Natale, potrebbe apparire sterile
ed inopportuna: difficile da compiere e ancora più difficile da comprendere.
Il silenzio, tuttavia, è sempre una risposta di dignità che
ogni persona può offrire quando nella comunicazione prevalgono la
mediocrità e l'ideologia. È un andare controcorrente, un rifiutare
quella cultura del consumo e del calcolo che toglie sempre più significato
alla fatica e alla gioia dello scoprirsi viandanti con una meta, non smarriti
nella complessità. Il silenzio diventa resistenza alla prepotenza
del nulla, non una resa e neppure estraneità o indifferenza.
Con queste premesse, c'è chi nel torrente mediatico - e soprattutto
in periodi significativi dell'anno, come questo - avverte l'esigenza di
una sosta per ascoltare se stesso dopo aver a lungo ascoltato altri. Una
pausa non per tagliare il filo di un ragionamento, ma per riprenderlo con
motivazioni e contenuti nuovi e più consistenti.
Non una rinuncia timorosa ad attraversare le difficoltà, ma la volontà
di capire, di decifrare i messaggi che parole ed immagini producono a grande
velocità. La cronaca quasi impone uno sforzo di riflessione tanto
più efficace e produttivo, quanto più avviene in una coscienza
che si tiene allenata nel distinguere il bene dal male, il vero dal falso,
la realtà dall'apparenza. Una coscienza che cerca, incontra e condivide
la verità è il luogo dove hanno origine pensieri forti e si
concretizzano parole ed impegni grandi.
La stessa questione educativa, trova nel silenzio un maestro, davvero unico,
che suscita domande, indica sentieri di ricerca, dice le ragioni della speranza,
che va oltre il provvisorio, addirittura oltre il tempo e lo spazio. Un
maestro severo ed esigente che non concede fughe dalla responsabilità
e chiede di andare oltre i confini dell'opinione più diffusa, per
mettersi in ascolto del Pensiero che si è fatto Parola, Persona.
È un maestro severo ed esigente nell'allenarsi all'arte della pazienza
- arte dei forti e non dei deboli - che è perseveranza rispettosa
e coraggiosa nel proporre cammini i quali, intrecciandosi con quelli che
partono dalla ragione, conducono a mete imprevedibili e sorprendenti. Ed
ancora, è un maestro la cui voce supera le altre, contro ogni ingiustizia,
ogni offesa della vita, ogni falsità e menzogna.
"Io faccio del mio silenzio monastico - scriveva Thomas Merton, di
cui ricorre in questi giorni il 40° della morte - una protesta contro
le bugie dei politici, dei propagandisti e degli agitatori..".
L'elenco del negativo va anche oltre. Il silenzio ne tiene conto ma, nello
stesso tempo, chiede di non trascurare l'elenco del positivo: uomini e donne,
ogni giorno, sanno stupirsi e gioire guardando al dono della vita, un dono
immenso anche se non ha parole. (novembre 2009).
Ci sono tutti i grandi temi dell'enciclica "Caritas in veritate"
nel discorso tenuto il 28 luglio in Senato dal card. Tarcisio Bertone, con
la certezza che essa può diventare base condivisa di lavoro e di
intervento e può dare sostegno ad una larga convergenza per il bene
comune. Infatti, siamo nel pieno di una crisi economica e finanziaria mondiale
che richiede una profonda riflessione e decisioni coerenti.
"Non riusciremo ad impedire l'insorgere in futuro di episodi analoghi
se non si aggredisce il male alla radice, vale a dire se non si interviene
sulla matrice culturale che sorregge il sistema economico". Secondo
il Segretario di Stato "alle autorità di governo questa crisi
lancia un duplice messaggio: in primo luogo che la critica sacrosanta allo
Stato interventista in nessun modo può valere a disconoscere il ruolo
centrale dello Stato regolatore. In secondo luogo, che è necessario
lo sviluppo di un mercato finanziario pluralista".
È necessaria una revisione dei comportamenti, ma prima di tutto delle
prospettive. Infatti ci sono seri motivi di preoccupazione come, ad esempio,
"la diffusione a livello di cultura popolare dell'efficienza come criterio
unico di giudizio e di giustificazione della realtà economica"
con conseguenze impensate sulla qualità del tessuto etico collettivo.
In realtà, proprio le recentissime vicende confermano che "né
la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è
scambio, né la visione che mette lo stato al centro della società,
in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per
farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate".
È qui che la dottrina sociale della Chiesa ritorna a proporsi come
risorsa per tutti, fuori dei confini confessionali. Il mercato non può
essere inteso come l'unica istituzione davvero necessaria per la democrazia
e per la libertà. La dottrina sociale della Chiesa ricorda, invece,
che una buona società è frutto certamente del mercato e della
libertà, ma ci sono esigenze, riconducibili al principio di fraternità,
che non possono essere eluse, né rimandate alla sola sfera privata
o alla filantropia.
Per questa strada, che è quella della cura delle relazioni, così
come della sovrabbondanza del dono, della sussidiarietà e del bene
comune, si superano le contraddizioni e si responsabilizzano direttamente
tutti coloro che agiscono nella sfera sociale, nessuno escluso: "Infatti
il bene morale, essendo una realtà pratica, lo conosce soprattutto
non chi teorizza, ma chi lo pratica: è lui che sa individuarlo e
quindi sceglierlo con certezza tutte le volte che è in discussione".
Ritorna così, in conclusione, il "valore aggiunto" del
radicamento di fede. Invece di essere in contraddizione con la ragione,
la rafforza: nella "Caritas in veritate" Benedetto XVI ripete
che "i diritti umani rischiano di non essere rispettati" quando
"vengono privati del loro fondamento trascendente", cioè
quando si dimentica che "Dio è garante del vero sviluppo dell'uomo,
in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda anche la trascendente
dignità". (settembre 2009)
È in distribuzione nelle librerie un volumetto intitolato "Lettera
ai cercatori di Dio". Una iniziativa della Commissione della Conferenza
Episcopale Italiana per la dottrina della fede, presieduta dal teologo Bruno
Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto.
Una pubblicazione che intende rispondere a coloro che sono in ricerca. Qualche
giorno fa, un quotidiano nazionale poneva su due pagine dedicate alla cultura
la domanda: Dio, ma ci sei o no? Mistero della fede. Certezze, confessioni,
dubbi. Così si ripropongono gli interrogativi di sempre". E,
nell'articolo, si dava un resoconto di libri che trattano di questioni religiose.
E, in verità, si deve dire che, forse anche per merito dei critici
e dei negazionisti della fede, c'è un aumento di pubblicazioni su
temi religiosi che indica una crescita di interesse.
La Chiesa, spesso accusata di occuparsi solo di bioetica o di sociologia
e politica, in realtà è una comunità di credenti ed
ha come scopo principale quello di vivere la fede e di trasmetterla ad altri.
Dio è l'orizzonte della vita della Chiesa, e da questo orizzonte
non può escludere la persona umana che è il destinatario della
luce di Dio. Qualcuno, dopo la prolusione del card. Bagnasco all'ultima
Assemblea della CEI, diceva di aver l'impressione che il cardinale avesse
preso il posto di Epifani (segretario della Cgil) perché ha difeso
i disoccupati e le famiglie povere. Ma è proprio per questa fede
che non si possono chiudere gli occhi. Il credente, infatti - ha scritto
Simone Weil - è come chi camminando nella notte accende una torcia:
non si mette a fissare la torcia, ma la strada e gli oggetti che essa illumina.
La fede cambia la vita perché vi immette una luce nuova dall'alto.
Il Vangelo afferma che chi non crede è nelle tenebre: per questo
si dice che i credenti sono missionari, lasciando però tutti liberi
di accogliere o meno la loro testimonianza. Ed i credenti che hanno scritto
la lettera non intendono imporre nulla, solo mettersi a fianco dei "cercatori"
per dare una mano, per presentare una "grammatica della fede",
quei percorsi che aiutano. Un universitario, durante un incontro con altri
giovani, ha rivelato che si trovava in un tale stato di confusione mentale
in campo religioso ed etico, da non riuscire più a combinare nulla,
finchè non ha trovato un gruppo di credenti che lo hanno aiutato
ad entrare nella logica della fede e si è sentito rinascere. Oggi
è una persona nuova che riesce anche
a fare esami.
Non sono miracoli, sono le risposte alla domanda fondamentale di uomini
e donne che comunque si portano dentro un desiderio, una nostalgia di Dio.
Ne è un segno l'esistenza di tante grandi religioni che si possono
descrivere come grandi pellegrinaggi verso l'Assoluto. Nella società
multiculturale in cui ci troviamo, anche se le fede non sono tutte uguali,
per cui una vale l'altra, può considerarsi uguale - o almeno simile
- la sincerità e la "buona fede" di coloro che cercano
Dio e lo onorano con cuore sincero senza secondi fini. Le religioni possono
ammalarsi o deviare ed i loro membri talvolta dare scandalo, ma nonostante
tutto nessuno dei veri cercatori di Dio rimarrà deluso. (agosto 2009)
Il comunicato finale dell'Assemblea dei vescovi italiani, pubblicato
nelle scorse settimane, conferma che la questione educativa sarà
il tema per il prossimo decennio di attività pastorale. E, come è
ovvio, si tratta di una questione fondamentale: se, infatti, non si riesce
ad entrare profondamente in relazione con le persone, così da provocare
in esse quel "risvegliarsi del soggetto" al quale ha richiamato
il card. Bagnasco nella sua prolusione, diventa difficile dire parole significative,
capaci di orientare lo sviluppo dei singoli e della società. Educare
è questo, e si tratta di un compito inesauribile che accompagna l'esistenza
di ogni uomo e di ogni donna.
Ma da questo derivano due impegni (ai quali, peraltro, aveva già
accennato il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana). Il primo
riguarda gli adulti, cioè coloro che hanno responsabilità
verso i più piccoli e i più giovani. E questi adulti, oggi,
sono un problema, incapaci di proporre modelli ed ideali all'altezza del
grande desiderio che prova ogni persona umana, a livello personale e sociale.
È sotto gli occhi di tutti, ad esempio, la deriva della vita pubblica,
la banalizzazione di una attività grande e determinante come la politica,
l'emergenza di interessi piccoli e privati dove ci si aspetterebbe di cogliere
tensioni e progetti per la trasformazione della realtà e delle relazioni
intorno a noi.
Il secondo è quello di non lasciarsi travolgere dal pessimismo e
dalla sfiducia: un pericolo reale. Basta chiedere ai papà e alle
mamme, guardare all'interno delle famiglie, rendersi conto delle relazioni
e delle sofferenze che abitano le nostre case, per capire che qui si corre
il rischio di mollare tutto. Come impegnarsi nella costruzione di relazioni
vere, in progetti a lungo termine, come quello di crescere figli in autonomia
e libertà, quando manca il tempo della vita insieme, quando le preoccupazioni
economiche e il lavoro assorbono le energie più grandi? Quando il
messaggio quotidiano che arriva dai media, dalla pubblicità, dai
modelli considerati vincenti è rivolto soltanto al benessere personale
da raggiungere subito e senza fatica? Un vero imbroglio che non fa che aumentare
frustrazioni e senso di impotenza. Qui sta il nodo, da qui arriva la sfiducia,
che innesca spirali distruttive.
Il messaggio che viene una volta di più dalla chiesa, da sempre protagonista
di un impegno educativo che fa parte della sua missione, è di avere
fiducia. Fiducia perché Qualcun Altro ha fiducia nella persona umana
e quindi vale la pena giocare la vita anche controcorrente, vale la pena
di dedicarsi agli altri più che a se stessi, vale la pena continuare
a scommettere sulla bellezza e sulla pienezza dell'esistenza, da scoprire
sia pure con fatica.
Se questo la chiesa può dirlo per la sua fede, tuttavia questa testimonianza
può diventare lievito per la società, con l'attenzione di
cogliere e valorizzare tutti gli elementi positivi, i segnali di attenzione
e le richieste che vengono da tutte le parti. Può diventare invito
e stimolo alle istituzioni perché tutti svolgano bene il proprio
compito: una sintonia, una alleanza educativa senza la quale non si va da
nessuna parte.
L'enciclica sociale di Benedetto XVI, tratta dello "sviluppo umano
integrale nella carità e nella verità", dilatando il
tema della "Populorum progressio" di Paolo VI, della quale ricorda
il 40°, ponendo un ulteriore tassello nel quadro dell'insegnamento di
questo Papa che non solo ha fatto dei due termini carità e verità
il cuore del suo magistero - perché, secondo Benedetto XVI, sono
il cuore stesso del cristianesimo - ma ha anche posto in modo radicale il
tema di "Dio nel mondo", cioè se il cristianesimo sia soltanto
utile o anche indispensabile alla costruzione di un vero sviluppo umano.
Il Papa pensa che sia indispensabile e in questo documento dice il perché.
Si tratta, quindi, di un intervento coraggioso perché elimina ogni
perplessità sul ruolo pubblico della fede cristiana e sul fatto che
da essa derivi una visione coerente della vita, sia pure in concorrenza
con altre visioni. Il mondo - secondo questa enciclica - non è solo
da accompagnare nel dialogo e mediante una carità senza verità,
ma è da salvare mediante la carità nella verità. E
per ottenere questo risultato, da una parte ha "riabilitato" Paolo
VI e, dall'altra, ha indicato il punto di vista dal quale la chiesa deve
considerare i fatti sociali.
Paolo VI non era incerto - come dice qualcuno - sul valore della dottrina
sociale della Chiesa e non ha ridimensionato per nulla l'importanza di una
presenza pubblica del cristianesimo nella storia. Anzi, dice Benedetto XVI,
ha gettato le basi del grande rilancio che, da lì a poco, avrebbe
fatto Giovanni Paolo II e quindi non esistono come due dottrine sociali,
una prima e una dopo il Concilio, ma - afferma l'enciclica - esiste un'unica
dottrina sociale della Chiesa.
Per quanto riguarda la visione teologica da cui partire, il Papa chiarisce
che la Chiesa non parte dal mondo, ma dalla fede degli apostoli perché
solo così può essere utile al mondo. Questa è la prospettiva
centrale di tutta l'enciclica e spiega l'insieme della valutazioni che vi
sono contenute.
Che il vero sviluppo - ad esempio - non possa tenere separati i temi della
giustizia sociale da quelli per il rispetto della vita e della famiglia;
che non si possa lottare per la salvaguardia della natura dimenticando il
ruolo della persona umana nel creato; che l'economia abbia bisogno di gratuità
e che questa non si deve aggiungere alla fine come un'appendice, ma deve
essere interna ai processi economici. Sono valutazioni che l'enciclica prende
dal vangelo, ma ritrovando anche (come ha notato qualche commentatore che
ha auspicato addirittura per il Papa il Nobel per l'economia) impensate
convergenze tra la visione cristiana e i bisogni autentici della società
umana..
Il punto di vista centrale dell'enciclica è stato riassunto, nella
presentazione dell'enciclica, dal vescovo Crepaldi come la "prevalenza
del ricevere sul fare". E torniamo qui al problema di fondo: senza
Dio gli uomini sono frutto del caso e della necessità e non possono
ricevere nulla. Ma il mondo - il mercato come la comunità politica
- ha bisogno di presupposti che esso stesso non si dare: la proposta cristiana
resta sempre la stessa. (agosto 2009)
Oltre un secolo di studi scientifici sulla Sindone di Torino pare confermare,
con un altissimo grado di probabilità, che la Sindone di Torino è
il lenzuolo che ha avvolto il corpo di Gesù nel sepolcro. Questo
risultato sembra incontestabile di fronte alle corrispondenze dei dati che
le varie scienze sperimentali mostrano, fino nei minimi dettagli, con il
racconto dei Vangeli e con quanto noto delle usanze e dell'ambiente della
Palestina del I secolo d.C. Dunque l'analisi del telo sindonico ci mostra
i segni della passione, della morte in croce e della deposizione nel sepolcro
di Gesù. Ma l'osservazione scientifica di questo oggetto unico e
particolare apre alla ragione anche un altro orizzonte: in esso infatti
appaiono anche tracce che lasciano intuire la risurrezione di Gesù.
La scienza non può dimostrare il miracolo della risurrezione di Gesù.
Ma trattandosi di "risurrezione fisica" (Paolo VI), la scienza
può osservarne eventuali indizi. L'immagine negativa impressa sulla
Sindone - un'immagine che per la ricerca scientifica stessa non riesce ad
attribuire a mano umana - è l'effetto di un fenomeno fisico che appare
non completamente spiegabile né riproducibile, nonostante i diversi
tentativi sperimentati, con le conoscenze e i mezzi attualmente disponibili.
Si è potuto appurare che essa è dovuta all'ingiallimento delle
singole fibrille superficiali del tessuto di lino, disidratatesi e ossidatesi
senza apposizione di sostanze esterne. La differente intensità di
colore, sia per la parte frontale che per quella dorsale, riflette la distanza
del telo dal corpo; la figura è una proiezione verticale del corpo
su un piano orizzontale, mantiene caratteri di tridimensionalità
e non è stata provocata dal semplice contatto del corpo con il telo;
infine non è presente al di sotto del sangue, che evidentemente nel
momento in cui essa si formò agì da schermo, e dunque è
certamente posteriore all'avvolgimento del corpo nella Sindone. Tra le varie
ipotesi che sono state fatte per spiegarne la formazione, la più
avvicinabile all'esito che si può constatare sul telo sindonico sembrerebbe
teoricamente essere quella - sostenuta particolarmente da Giulio Fanti,
professore di Misure meccaniche e termiche all'Università di Padova
- di un fenomeno radiativo molto particolare, dal corpo verso l'esterno,
con intensissima e istantanea emissione di energia, anche se si tratta di
un fenomeno fisico oggi nella pratica solo molto limitatamente riproducibile
in laboratorio.
Questa ipotesi tuttavia ci condurrebbe ancora solo fino a comprendere il
procedimento di formazione dell'immagine negativa. Ma il complesso delle
risultanze delle indagini sulle macchie di sangue della Sindone aggiunge
di più. Esse sono nette, ben definite, non presentano né rotture
nelle croste né sbavature o sfrangiamenti da spostamento o trascinamento:
e questo sarebbe assolutamente impossibile se qualcuno avesse sciolto l'involucro
del telo sindonico e ne avesse estratto, sia pure con assoluta delicatezza,
il corpo in esso contenuto. Mentre sappiamo, d'altro canto, che il contatto
del corpo con il lenzuolo è durato non oltre le trentasei ore: non
è riscontrabile infatti il minimo segno di putrefazione. Proprio
l'osservazione scientifica sembra dunque suggerire come compatibile con
questi dati solo una spiegazione che va al di là della conoscenza
scientifica stessa, e cioè che il corpo avvolto nella Sindone abbia
abbandonato l'involucro che lo conteneva semplicemente scomparendo; oppure
che il corpo sia divenuto meccanicamente trasparente, attraversando e lasciando
vuoto e intatto l'involucro.
E così, vuoto ma intatto, lo videro Pietro e Giovanni. È impressionante
la corrispondenza tra il dato fisico oggettivo e quanto troviamo scritto
nel Vangelo di Giovanni, che fu testimone oculare. Giovanni dunque si china
e, senza entrare, "scorge i teli distesi", al loro posto, sulla
pietra sepolcrale, e non in terra. Pietro invece entra nel sepolcro, "osserva
i teli distesi, e il sudario, che gli era stato posto sul capo", cioè
il fazzoletto che era stato posto sul capo di Gesù sopra il telo
della Sindone - le fasce che legavano la Sindone arrivavano fino all'altezza
delle spalle -, "non disteso con i teli, ma, al contrario, avvolto
[la traduzione in italiano "piegato" non corrisponde al senso
del termine greco e ne è una ingiustificata forzatura] in una posizione
unica", cioè "a sé stante" (mentre la traduzione
italiana riporta "in un altro luogo"). Pietro contempla le fasce
distese sulla pietra sepolcrale e, sulla stessa pietra, contempla anche
il sudario che, al contrario delle fasce, che sono distese, è in
posizione di avvolgimento, anche se non avvolge più nulla".
Ecco dunque: il telo e le fasce che hanno avvolto Gesù sono ancora
al loro posto, ma si sono abbassati sulla pietra sepolcrale, perché
ciò che avvolgevano, il corpo di Gesù, non c'è più;
al suo posto è anche il sudario, rimasto nella posizione in cui era
stato messo. E tutto è, evidentemente, intatto.
"Allora entrò anche l'altro discepolo [Giovanni], che era giunto
per primo al sepolcro, e vide e credette".
Sono gli stessi esatti termini che Gesù usa per definire beati quelli
che, pur non avendo visto Lui risorto, osservando, come l'apostolo prediletto,
dei piccoli indizi, hanno creduto (Gv 20, 29).
(Pasqua 2009)
Perché è in Crisi : alcuni difetti nella pratica della
Confessione.
*Il perdono troppo a buon mercato. Per tanti è subentrato un senso
di abitudine, di devozionalismo formale per cui dicono " faccio sempre
gli stessi peccati, poi tanto mi confesso."
*La povertà del rito. E' il sacramento più spoglio nella forma.
Lo si può celebrare in qualunque luogo e in qualunque tempo, senza
troppa preparazione. Basta trovare un prete che ascolta e che dia l'assoluzione.
*L'eccessiva privatizzazione del perdono. Si dimentica che il peccato ha
anche una dimensione ecclesiale, è un male non solo contro Dio ma
anche contro la comunità. Chiedo perdono a Dio, cosa c'entrano i
fratelli.
*Il cambiamento del modo di confessarsi. Nei primi tempi della Chiesa c'era
più severità. Oggi accentuando la gratuità del perdono
di Dio si rischia di fare della confessione un gesto banale. Se ho commesso
una colpa grave, basta dirla a un prete e risolvere tutto con tre "Ave
Maria".
*La confusione tra Sacramento e dialogo psicologico. Gesù non ha
voluto la Confessione per curare la nevrosi. Se è il sacramento della
conversione non servono tante parole: non ho peccati; dico al prete i miei
problemi.
*La perdita del senso di Dio. Anche in persone colte ci sono ignoranza e
indifferenza religiosa. La coscienza non è più sentita come
luogo sacro dove Dio rivela il mio bene e mi fa sentire che Dio mi ama.
*La mancanza del senso del peccato. Oggi c'è una confusione paurosa
sul problema del bene e del male. Tutto è lecito, tanto fanno tutti
così.
*Viene travisato il concetto di pentimento. Chi ha paura a specchiarsi nella
propria coscienza, a guardare negli occhi di Cristo, a confrontarsi sulla
parola di Dio, non giunge al pentimento autentico.
*La pretesa del perdono senza sacramento. C'è una mentalità
diffusa che il perdono si possa ottenere direttamente da Dio. Me la vedo
io con Dio.
*L'abitudine a una pratica sacramentale senza vita.
Sono alcuni dati riguardanti la celebrazione del sacramento della Confessione. Se questa è la situazione non è però lecito scoraggiarsi. Dio si è chinato su di noi e ci ha consegnato a Gesù Cristo morto per noi sulla croce. E' lui che può gestire la nostra debolezza e trasformarla. E' lui che ci aiuta a capire e a ricomprendere il sacramento del perdono. La prima grande catechesi sulla confessione è Gesù con il suo Vangelo e la sua vita.
(aprile 2009)
Entrando nella Quaresima è prioritario sottolineare che siamo
chiamati a vivere in modo esemplarmente evangelico queste settimane, quasi
fossero poi il modello per tutte le altre settimane dell'anno. Dentro questo
vissuto viene posto il lievito della Pasqua del Signore, attraverso i riti
sacramentali, la celebrazione della Parola e della preghiera: il rito non
si stacca dall'esistenza, ma la dilata, cioè le conferisce tutta
la sua verità, il suo significato e, qualora fosse necessario, la
purifica. In questa prospettiva la Quaresima ci aiuta a sottolineare alcune
caratteristiche dell'esistenza quotidiana, evangelicamente vissuta.
E' innanzitutto un'esistenza che fa riferimento al mistero di Cristo, al
suo donarsi al Padre e di conseguenza al dono dello Spirito. Non a caso
nella Quaresima ambrosiana sono sospese tutte le feste dei santi, fatta
eccezione quella di San Giuseppe. Meditare più frequentemente la
Bibbia, educarsi a pregare secondo la Liturgia delle Ore, per esempio, sono
atteggiamenti che allenano a condurre una esistenza cristianamente "centrata".
In secondo luogo dev'essere un'esistenza sobria. In altri secoli il digiuno
era un fatto molto rigoroso, oggi sembra completamente disatteso. Non sarebbe
il caso di pensare a un tipo di digiuno che comprenda pure la sobrietà
nell'uso della parola, nelle prese di posizione, nei giudizi, nel rifiuto
degli atteggiamenti estremizzanti? Esprimere il proprio parere senza offendere,
non giudicare le persone, educarsi a vivere la vita nella sua complessità,
riconoscere la fatica di chi deve prendere decisioni in contesti pluralistici,
tenere a cuore la concordia pur nella dialettica delle posizioni: tutto
questo è sobrietà e digiuno.
E' un'esistenza donata. La Quaresima si pone come preparazione alla celebrazione
del Triduo pasquale e quindi del dono che Cristo ha fatto di sé al
Padre per la salvezza degli uomini. Parlare del dono di sé non significa
non riconoscere il proprio valore e le proprie capacità. Siamo chiamati
a coltivare questi valori, in un certo senso ad "arricchirci",
per creare attorno a noi e per tramite nostro una rete di rapporti gioiosi,
significativi, felici. Tutto questo sembra quasi un'utopia se ci lasciamo
guidare dai giudizi che ricaviamo dagli strumenti di comunicazione che giocano
la loro influenza sull'esasperazione del conflitto sociale, culturale e
religioso. Tuttavia la logica delle beatitudini evangeliche ci pone in un'altra
direzione, a partire dalle nostre famiglie e dalle nostre comunità:
sarebbe già molto se le nostre parrocchie arrivassero alla Pasqua
avendo sciolto alcuni nodi conflittuali e avendo accentuato il donarsi scambievolmente
gli uni agli altri. Le iniziative diocesane poi sono quanto mai opportune
per sostenere il cammino quotidiano dei fedeli perché la loro vita
sia in riferimento a Cristo, sobria e radicalmente donata.
(Quaresima, marzo 2009)
Dopo vent'anni di studi e di indagini sociologiche, il Cisf (Centro Internazionale
Studi Famiglia) presenta il suo Decimo Rapporto sulla famiglia in Italia
e pone a tema la famiglia stessa, nella sua identità e col suo patrimonio
valoriale. Esiste ancora la famiglia e come si compone? Quale apporto essa
fornisce alle persone che la compongono e alla società? "Sembra
che oggi tutto diventi famiglia, che niente sia più famiglia"
- afferma il sociologo Donati, docente di Sociologia della Famiglia e "nella
percezione diffusa fra la gente, potentemente alimentata dai mass media,
la famiglia diventa un aggregato di individui che, spinti da qualcosa che
viene chiamato 'amore', convivono assieme senza che vi siano dei precisi
requisiti relativi alla qualità delle persone e delle loro relazioni".
Questa situazione, ben evidente nella società contemporanea, mostra
un vuoto di riferimenti di valore, quasi a dire che la famiglia è
ormai un soggetto in via di estinzione, o per lo meno sostituibile e non
più necessaria. Secondo gli Autori del Rapporto Cisf questo non è
proprio vero perché, oltre ai problemi quotidiani che giovani e genitori
ben conoscono sia nelle relazioni tra le generazioni che nelle traversie
economiche e lavorative, c'è una forza generativa nella famiglia
stessa che le consente di superare difficoltà e grandi problemi e
di portare a riva i propri componenti dopo forti tempeste.
Non basta denunciare le disfunzioni conseguenti a politiche familiari insufficienti,
a perdite di valore, a distacco dalla tradizione, a mancanza di modelli
positivi di riferimento, bisogna riconoscere che pur sopportando il peso
di svariate crisi, la famiglia affronta cambiamenti vari nel proprio modo
di comunicare e di interagire - come afferma lo psichiatra Franco Potenzio
- e si trasforma: "A fronte di situazioni critiche apparentemente disgreganti
i nuclei familiari è dato riconoscere, con la forza dell'evidenza,
l'insostituibilità della famiglia in vari settori delle umane convivenze".
Grandi temi che riportano al nucleo centrale del proprio legame con le origine
e al significato che si intende dare alla famiglia che merita di avere un'identità
precisa e non suscettibile di mille varianti. "In un mondo globalizzato,
il riconoscimento della famiglia non può basarsi su un modello prefissato,
ma deve essere rilegittimato sulla base del 'valore aggiunto' che la famiglia
ha rispetto ad altre forme di vita.
Il valore aggiunto è ciò che di unico, originario e insostituibile
la relazione familiare crea per la persona umana e per la società
più ampia". Non solo un aggregato di persone, neppure una famiglia
funzionale all'assistenza e/o alla procreazione, ma una famiglia relazionale,
luogo di relazione tra i sessi e le generazioni, "allora non c'è
nessun'altra agenzia, luogo o struttura, che possa prenderne il posto".
(febbraio 2008)
Sempre più spesso negli ultimi anni, la Chiesa italiana ha posto
al centro della sua riflessione il mandato del Risorto ad essere suoi testimoni.
Siamo infatti convinti che compito primario della Chiesa sia testimoniare
la gioia e la speranza originate nella fede nel Signore Gesù Cristo,
vivendo nella compagnia degli uomini, in piena solidarietà con loro,
soprattutto con i più deboli. Il convegno celebrato nell'autunno
2006 a Verona ci ha confermati in questa direzione, ricordando che la testimonianza
è la via privilegiata della missione oggi. Una testimonianza che
intende essere "umile e appassionata, radicata in una spiritualità
profonda e culturalmente attrezzata, specchio dell'unità inscindibile
tra una fede amica dell'intelligenza e un amore che si fa servizio generoso
e gratuito." Rigenerati per una speranza viva ( 1 Pt. 1,3 )
La vita delle nostre comunità necessita di essere penetrata da un
grande respiro di speranza, di tensione costruttiva al futuro che Dio vuole
regalare alla nostra umanità anche attraverso noi, discepoli del
suo Figlio. Si tratta quindi di educarci alla speranza, di mostrarne le
ragioni e di sperimentare le modalità concrete mediante le quali
il vissuto cristiano, personale e comunitario si comunica come testimonianza
di speranza.
Il nostro compito, nei molteplici ambiti dell'Evangelizzazione, è
di mostrare che al centro del cristianesimo c'è una Parola che diventa
la nostra via e la nostra vita. Quando ci imbattiamo in un gruppo di credenti,
desideriamo in primo luogo essere accolti e ascoltati. Il primato della
carità è senza dubbio ciò che più incontra l'ultimo
desiderio dell'uomo: essere amato e amare.
Questa accoglienza si prolunga e si afferma quando alla persona viene offerto
il riposo e il nutrimento. Non un riposo inerte ma un riposo e un nutrimento
orientati a riprendere le forze per ricominciare il cammino e il lavoro.
Ma dove trovarlo? Riposo e nutrimento il cristiano li trova nelle sue radici,
nel vedere la verità della sua fede, per abbandonarsi e crescere
in questa fede. Oggi la gente, credenti e non credenti, desidera essere
messa a contatto con un nutrimento solido, con una parola che sia proposta
come sensata e degna di fiducia che si dona per arricchire e orientare le
nostre vite.
La quaresima vuole essere il tempo in cui noi arricchiti dalla testimonianza
di Gesù Cristo ne diventiamo capaci a nostra volta di riattualizzarla
e di darne con la nostra vita una chiara testimonianza.
Questa nostra cultura dell'effimero, dell'usa e getta, dei prodotti a
scadenza datata, delle rottamazioni incentivate, ha purtroppo intaccato
anche la coppia. E' un fenomemno del nostro tempo: "scoppiano"
i conviventi, gli sposati col rito civile, gli sposati nella Chiesa. Neanche
il Sacramento e la presenza dei figli arresta la separazione.
Questo fenomeno sociale può essere imputato ad una educazione che
non prepara a superare le difficoltà: la vita di coppia è
felice ma è difficile. A questo si aggiunge la forte diseducazione
televisiva che presenta un'immagine di vita idealizzata e falsata.
I ragazzi che sognano una vita di coppia alla "Mulino Bianco":
tutti belli, tutti sorridenti, tutti soddisfatti
senza fatica.
La complementarietà uomo-donna è il fondamento della coppia,
di ogni coppia. Solo se io ho bisogno di te e tu hai bisogno di me, la coppia
trova forza, una forza continua che serve a mantenerla e a rinnovarla. Lo
sgretolamento della compattezza parte dall'asimmetria che si viene a creare
all'interno, con chi è superiore che si sente legittimato a dominare,
oppure anche sul fatto che uno si considera più debole, meno capace
dell'altro, e quindi sceglie di rimanere in ombra.
Occorre che le due parti siano consapevoli di aver bisogno l'uno dell'altra
e di essere una coppia che non si limita ad assicurare il soccorso vicendevole,
ma che promuove la propria serenità e dunque la gioia: una coppia
che genera felicità reciprocamente e quindi insieme. Se la vita matrimoniale
è vissuta in modo unilaterale, cessa di funzionare e diventa dipendenza,
oppure si produce il distacco l'uno dall'altro.
Nessuno nasce "imparato". Questa dinamica di coppia si può
apprendere in famiglia, vedendo il comportamento dei propri genitori, oppure
in un fidanzamento non solo prolungato, ma altrettanto qualificato. I nostri
"percorsi per fidanzati" preparano a celebrare bene il Sacramento,
ma non possono supplire una preparazione alla vita di coppia che deve avvenire
prima e altrove. (luglio 2007)
Se compito del cristiano, soprattutto nei giorni del tempo di Natale,
è quello di contemplare il mistero dell'Incarnazione, tutta la comunità
cristiana deve essere grata a tutte quelle persone che hanno allestito i
presepi nelle nostre frazioni. Il compito del cristiano è anche quello
di sostare, di fare memoria, di non lasciarsi distrarre dalle mille vicende,
anche belle e interessanti, della vita per cogliere fino in fondo la bellezza,
l'intensità, l'unicità di questo messaggio, di questa presenza.
Il Signore cammina accanto a noi e bussa alla porta della nostra esistenza.
E il messaggio è chiaro: "Voglio prendermi cura della tua vita;
desidero parlarti, desidero che il miracolo del Natale si rinnovi e splenda
su di te la stella della speranza della vita senza fine". Celebrare
il Natale, fare Natale significa accogliere questo abbraccio; di conseguenza
Natale è abbracciare il cammino di tutte le persone che ci camminano
accanto. E lo sguardo su Gesù, figlio di Dio fatto piccolo uomo,
e sul suo modo di nascere nel bisogno e nell'oscurità, si lascia
trasformare nello sguardo sui poveri del mondo: i loro drammi paiono interpellarci.
E' decisivo, nel quotidiano, fare di tutto per rendere più percettibile
per ciascuno l'amore che Dio ha per tutte le persone. Accogliamo questa
sfida: a questa sfida diamo una risposta continua ed importante, ogni giorno
dell'anno che inizia.
Si chiama perdono. Per la coppia dovrebbe essere il pane quotidiano.
Non esistono sposi, come non esistono famiglie, che possono rinunciare a
questo cibo dello Spirito. Perdonare e perdonarsi, offrire e accogliere
il perdono sono momenti irrinunciabili di ogni storia di amore. Anzi amore
e perdono dovrebbero mescolarsi insieme nella clessidra domestica, quella
che segna ritmi e pause di ogni matrimonio.
Camminare insieme significa anche imparare ad affrontare la cattiva sorte,
superare gli ostacoli,medicarsi insieme le ferite, ricominciare una nuova
strada scelta di comune accordo. Perché marito e moglie hanno bisogno
di un costante e reciproco perdono? Perché il matrimonio è
la relazione che più ci mette alla prova, che più di ogni
altra fa emergere le nostre immaturità e quindi è indispensabile
imparare a perdonarci per quello che siamo. Quando la coppia subisce ferite
profonde entrambi i partner debbono mettersi in gioco, perché tutti
e due hanno contribuito a ferire la coppia. Oggi si sente spesso: "
Non me la sento di ricominciare perché dopo quello che è successo,
penso che non potrà più essere bello come prima." Vuol
dire che non c'è la capacità e la volontà di perdonare.
Oggi ci si riempie la bocca con parole come "bello" e "felice"
confondendole con "facile". Il matrimonio non ci vuole belli e
felici ma ci vuole "Vivi"! E questo obiettivo lo si raggiunge
solo con il perdono a costo di lacrime e sacrifici.
Per tutto questo il matrimonio non può durare se non è capace
di aprire spazi di perdono. Anzi va proprio visto come luogo del perdono
per eccellenza. Nel matrimonio perdonare vuol dire riconoscere di essere
a propria volta bisognosi di perdono e diventare capaci di accettare il
perdono. Talora perdonare se stessi è più difficile che perdonare
agli altri così come perdonare il vicino più prossimo è
più arduo che perdonare il lontano.
Infine è importante non confondere perdono con perdonismo. Perdonismo
è l'atteggiamento un po' banale che vorrebbe sanare subito tutto,
con una frase a effetto. Il perdono autentico richiede gratuità,
capacità da mettere da parte i risentimenti, desiderio di non arrendersi
mai di fronte al male, disponibilità ad alimentare sempre la speranza.
E capite allora che questo richiede tempo, coraggio e talvolta anche sofferenza.
E' la capacità non indifferente di spezzare quella catena di risentimenti
che avvelena l'armonia della famiglia. In parole povere ci vuole tutta la
forza del vero amore per arrivare alla capacità di volgere uno sguardo
di autentica misericordia verso chi ci vive accanto.
(da NOI - Avvenire - maggio 2006)
Per fare davvero festa
Agosto è il mese delle ferie, delle vacanze, del tempo libero;
è anche il mese della nostra festa patronale, legata alla Madonna
Assunta. Come spesso capita, si rimpiange il tempo passato, nel quale però
più nessuno vorrebbe vivere, perché costretto a rinunciare
ai progressi ottenuti e alle comodità, delle quali non si può
più fare a meno. E' perciò necessario guardare avanti ed interrogarci
su quali siano le scelte migliori per vivere bene oggi, per riuscire a fare
festa in maniera ricca e coinvolgente e per poter condividere con tutti
allegria e buon umore.
Per molti far festa è cercare gli eccessi, senza rispetto per cose
e persone. La ricerca dello straordinario a tutti i costi, dell'eccentrico,
dello smisurato pare essere condizione per potersi divertire. E questo tocca
vari aspetti, dallo sfarzo alla violenza, dagli orari senza limite, alla
sessualità, dal consumo di cibi e bevande fino all'uso di droghe.
Almeno una volta ogni tanto, si dice, è bene infrangere ogni regola!
In altre occasioni si concepisce la festa come una realtà per pochi
e selezionati invitati, con caratteristiche ben precise e con disponibilità
a compiere la volontà del padrone di casa. Oppure si pensa che per
poter far festa in piena regola bisogna avere tanti mezzi economici, così
da non far figure e da poter invitare qualcuno capace di fare notizia o
di far parlare di sé.
Dovremmo invece recuperare la festa come occasione importante per intessere
relazioni libere e liberanti, per rendere bello e piacevole lo stare insieme
a tutti senza mettere in difficoltà nessuno, per sviluppare fantasie
positive.
Una festa vera è per sua natura, accogliente, non discriminante,
capace di esprimere una reale popolarità: e per far questo non servono
necessariamente risorse enormi o complessi canori di prima pagina. Ci vuole
invece, ed è certo più difficile, la capacità di sentirsi
tutti parte di una stessa realtà, il desiderio di far contenti, prima
che di essere contenti, la voglia di vivere nel rispetto di tutti e nella
valorizzazione delle esperienze positive ed arricchenti. Da feste così
si va a casa contenti e ci si sente invogliati a vivere la vita quotidiana
con più voglia di stare insieme. (Agosto 2006)
AMORE GRATUITO
Da una riflessione di don Peppino Maffi, prevosto
di Varese
"Deus Caritas est". Dio è amore. Alle Chiese di tutto
il mondo, a tutti gli uomini di buona volontà è stata offerta
da Benedetto XVI la nuova enciclica; per credenti e non credenti. Un'enciclica
di grande chiarezza, capace di offrire luce su questioni decisive per l'esperienza
quotidiana. Nella seconda parte del documento, il Papa affronta il tema
dell'esercizio dell'amore parte della Chiesa, quale comunità d'amore.
La carità, afferma il Papa, non deve essere un mezzo in funzione
di ciò che oggi viene indicato come proselitismo: l'amore è
sempre gratuito e non deve essere mai promosso per raggiungere obiettivi
diversi da quello di donare con larghezza di cuore.
La miglior testimonianza della nostra fede nel Signore si concretizza nella
gratuità con cui noi offriamo l'amore da cui ci sentiamo raggiunti.
Il credente è colui che non si stanca di contemplare l'amore che
il Signore Dio ha messo nel cuore per trarne motivazioni continue in vista
di promuovere la qualità della vita delle persone che ha accanto.
Proprio perché l'amore di Dio è per tutti e non soltanto per
quelli che - agli occhi degli uomini - se lo meritano, la scelta di ogni
credente è quella di rapportarsi, con amore disinteressato e rinnovato,
ad ogni creatura.
Il Papa ci ricorda inoltre che il cristiano sa quando è tempo di
parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare
soltanto l'amore. Le parole dell'amore infatti vanno anche oltre l'esplicito
annuncio evangelico; si consolidano dentro la capacità di una continua
testimonianza di vita di carità; attraverso un dialogo rispettoso
della propria identità e dell'identità degli altri; dentro
scelte puntuali di promozione della dignità della vita di tutte le
persone.
All'interno di queste convinzioni va accolta l'indicazione a far si che
ogni comunità cristiana diventi sempre di più luogo di vicendevole
aiuto, di disponibilità a servire anche coloro che, fuori di essa,
hanno bisogno di attenzione.
Del resto il Signore Gesù ci conferma: "Se inviti a pranzo solo
coloro che, a loro volta, ti ricambieranno il favore, che merito ne avresti?
Fanno così anche i peccatori!".
Non è senza senso che la Quaresima coincida con la fine dell'inverno
e l'inizio della primavera. L'impeto vitale della natura che, in questa
stagione, profuma di nuovo è di una forza impressionante. Nel giro
di poche settimane l'aria si fa più respirabile, il sole più
caldo, gli animali escono dal loro letargo. E, prodigio mirabile, la vita
torna a trionfare: con libertà e prepotenza risorge là dove
sembrava regnare incontrastata la morte. La Quaresima che stiamo per concludere
con la imminente festa di Pasqua ci porta questo messaggio: è tempo
di risvegliare nella nostra anima la primavera dello Spirito, per camminare
verso la fertile stagione della grazia.
La Quaresima, con la preghiera e le sue opere di penitenza, ci chiama ad
un impegno serio e costante di conversione: è condizione indispensabile,
infatti, che muoia il nostro "uomo vecchio" con tutte le sue passioni,
perché possiamo diventare "uomini nuovi", insieme con il
Risorto, l'uomo nuovo per eccellenza.
Ancora una volta ci viene ricordato che la mortificazione è a vantaggio
della vita, perché laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato
la grazia, cioè la vita. La società in cui viviamo spesse
volte si lascia sedurre dal maligno e cede ad una cultura di morte. Come
reagire ad una simile cultura? Decidendoci anzitutto per una radicale conversione,
sotto lo sguardo di Colui che è venuto a subire la nostra morte per
darci in abbondanza la sua vita.
Scrive infatti il Papa nel suo primo messaggio quaresimale: "Anche
oggi lo sguardo commosso di Cristo non cessa di posarsi sugli uomini e sui
popoli. Egli li guarda, sapendo che il progetto divino ne prevede la chiamata
alla salvezza. Gesù conosce le insidie che si oppongono a tale progetto
e si commuove per le folle: decide di difenderle dai lupi anche a prezzo
della sua vita".
Convertirsi a Dio è dunque rinunciare al male, e, in definitiva,
sconfiggere la morte. Solo così anche noi parteciperemo alla vittoria
definitiva di Cristo, entrando con Lui nella Pasqua eterna, dove la libertà
e la gioia sono definitive.
GIOIA DI ASPETTARE
"Aspettare è una cosa da morire": in questo proverbio c'è
tutta l'esperienza di generazioni che hanno aspettato e sperato invano,
che hanno sopportato il presente nella speranza di un dopo migliore, che
hanno subito ristrettezze e contraddizioni soltanto perché c'era
una luce lontana che sembrava avvicinarsi. E' giusto tenerne conto, non
cancellare in pochi secondi quanto le generazioni passate hanno vissuto
sulla propria pelle, per ricavare dal loro vissuto indicazioni e tracce
per il nuovo percorso che si apre davanti a noi.
E' così che ci mettiamo all'ascolto di altre voci che fioriscono
nell'intimo di noi stessi; vogliamo prendere in considerazione le tracce
che scopriamo dentro di noi, nella nostra vita di oggi, nei nostri sogni,
e anche nella esperienza altrui. E' qui che appare la "gioia dell'aspettare"!
Si, perché aspettare vuol dire accorgersi di avere ancora una finestra
aperta, ancora uno sguardo che scavalca l'immediato e si protende verso
ciò che ancora non è visibile ed è già dentro
la nostra storia.
Che gioia aspettare, mentre tutto si dilata dentro di noi, mentre
ciò che è nella mente, nella fantasia, ciò che sembra
solo un seme nascosto nella terra sembra già far emergere un primo
segno di vita.
Che gioia aspettare, non fatalisticamente né passivamente, ma già
costruendo quell'ambito e quell'atmosfera che renderanno possibile la vita
di ciò che verrà.
Che gioia aspettare, cioè essere pronti, disponibili, essere ricettivi,
capaci di decifrare quanto apparirà, pronti a lasciarsi condurre
dalla novità che indicherà altri percorsi, altre tracce da
seguire.
Che gioia se siamo capaci di diventare nuovi ogni volta, sappiamo intonarci
con quanto si presenta, per ritrovare nella realtà l'invito a rimetterci
in cammino, riprendere la strada dell'avventura, verso una realtà
sempre più piena.
Che gioia saper scandagliare il proprio intimo e scendere nelle radici profonde
di sé dove abita ancora quello "spirito di Dio" che da
un fantoccio di fango ha tratto una persona viva: avere il coraggio di esplorare
anche gli angoli più remoti di cui si ha paura, ma nei quali è
rimasta viva e feconda la forza di una realtà immortale.
Che gioia aspettare: è il senso del vivere, del crescere, dell'amare.
E' il senso della propria ricchezza infinita, della propria origine divina
che si esprime nei modi più svariati e più diversi, senza
mai ripetersi. (dicembre 2004)
GIOIA DI CERCARE
E' sempre una sorpresa, anche se si ripete puntualmente, ascoltare l'interminabile
sequenza di "perché" che il bambino rivolge ai genitori
ed in genere agli adulti. E quello che avviene nel bambino avviene sempre
in ogni persona capaci di intendere e di volere: è il segno proprio
dell'uomo la sua capacità di interrogarsi, di chiedere spiegazioni
e motivi per tutto quanto succede e viene ad interferire con la propria
vita.
Cercare è l'atteggiamento proprio dell'uomo, un elemento della sua
identità. E' in ricerca continua, sempre alla scoperta di qualcosa
di nuovo, alla conquista di ciò che ancora non possiede o non conosce.
La curiosità è caratteristica propria di ogni persona e, mentre
la tormenta con domande e proposte mai esaurite, gli apre spazi sempre nuovi,
orizzonti da esplorare, allargando così anche la grandezza interiore.
Che gioia lasciarsi interpellare da ciò che avviene e seguire
tracce impercettibili e via via più chiare che conducono ad addentrarsi
in esperienze nuove.
Che gioia lasciarsi prendere dall'avventura che pur con il suo carico di
paura e di sospetti, tuttavia rivela capacità più grandi e
fa compiere itinerari che si snodano sotto cieli sempre diversi.
Che gioia provare in modi diversi e nuovi la reazione che nasce dal contemplare,
quando la realtà presenta elementi che superano le dimensioni materiali
e spalanca nella persona le nascoste e segrete sorgenti della sensibilità
artistica. Si scoprono sintonie e vibrazioni, godimenti e percezioni che
conducono nelle sfere più alte del vivere umano. L'ansia del cercare
è il segno della grandezza dell'uomo; è il ritmo del suo cammino
nella storia, è il pungolo che non permette soste troppo lunghe,
è l'espressione più autentica della forza del vivere.
Che gioia avvertire dentro di sé la perenne lotta tra il piacere
di sentirsi ricchi e soddisfatti, e il tormento della insoddisfazione che
sembra annullare quanto già si possiede. E' la gioia del vievre,
del crescere, del cercare quella risposta che intuì un grande santo,
quanto confessò: "Il nostro cuore non avrà pace, se non
quando riposerà in te, Signore!". (novembre 2004)
GIOIA DI LAVORARE
Da sempre l'uomo lavora, cioè si impegna a far qualcosa che gli sia
utile, che serva a se stesso ed ad altri che gli sono vicini. Il lavoro
è segno del suo esistere, del suo pensare, delle sue capacità
fisiche ed intellettuali: è dal lavoro che nasce il progresso umano,
scientifico e tecnico; con il suo lavoro ogni persona costruisce ciò
che gli è più utile e bello e gli rende la vita più
facile e più bella.
Non importa quale sia il tipo di lavoro che ognuno compie: ogni attività
è sempre un segno di se stessi, è un modo di entrare in comunicazione
con persone e cose, è un modo di affermare la propria personalità.
L'importante è sentirsi utili, avvertire la propria presenza nel
mondo, scoprire il perché del nostro esistere, di quanto siamo e
di quanto abbiamo. Troppo spesso si vive quasi senza accorgersene, senso
dare un senso a tutto quel che avviene, e avviene anche per mezzo nostro.
Spesso c'è un senso di noia e di passività nel proprio vivere,
come se si fosse condannati a vivere, come se per caso fossimo stati gettati
a sulla terra da forze nemiche e ci trovassimo sperduti in regioni sconosciute
dove ci si deve arrangiare in qualche modo.
Per questo è necessario dare al nostro lavoro una serietà
e un impegno che non solo non lo appesantiscano, ma anzi lo rendano più
piacevole, perché più capito e più valorizzato da noi
stessi.
Sentirsi utili, vedere il frutto delle proprie mani, della propria intelligenza,
delle capacità nascoste nel nostro segreto personale, vedere fuori
di noi quanto è stato pensato, voluto, sognato, quanto ha richiesto
preparazione e fatica, è una soddisfazione che paga l'attesa e invoglia
a continuare perfezionando le nostre possibilità.
Che gioia lavorare!
Che gioia andare ogni giorno al lavoro, dando alla solita strada, al solito
luogo, alle solite persone e cose, un significato sempre nuovo, il segno
della nostra persona.
Che gioia lavorare ed imprimere in cose apparentemente banali qualcosa di
noi stessi, lasciare dappertutto tracce del nostro passaggio, semi di vita,
di novità, di grandezza, semi di quella gioia che andiamo tutti cercando!
Che gioia lavorare e veder crescere davanti a sé, giorno per giorno,
qualcosa di nostro, qualcosa che porta il respiro e la fantasia nostra,
tesa verso nuove frontiere!
Che gioia sapere che anche per merito nostro qualcosa di buono e di bello
è entrato nel mondo e ha accresciuto quello spesso di vita e di utilità
che tutti cerchiamo.
Che gioia lavorare e trarre da se stessi ciò che sembrerebbe impossibile,
superare il limite troppo angusto della facilità e del comodo, scoprire
possibilità ben al di là delle solite abitudini, e trovare
sorgenti sempre vive di forza, di inventiva, di coraggio!
Che gioia saper superare la noia e la stanchezza, la solitudine e il peso
di tante forme di lavoro ancora lontane dalla dignità umana, saper
redimere e cambiare le regole sociali per rendere il lavoro l'espressione
più grande e degna di noi, piccole creature dotate di immense possibilità.
GIOIA DI CONDIVIDERE
Siamo fatti per stare insieme, per sentirci l'uno unito all'altro in
una tensione comune, in una comunione sempre più profonda.
E' vero che ciascuno è geloso di se stesso e vorrebbe tenere per
sé tutta quanto è e ha; ma è anche vero che nessuno
si trova bene da solo e in un modo o nell'altro cerca di aprirsi.
Forse, si potrebbe dire che vivere significa proprio cercare e trovare l'altro:
la persona è incompleta e nel suo divenire vuole via via raggiungere
una pienezza costante.
Non si tratta di rinunciare alla propria identità unica e irripetibile,
ma ci si accorge che solo in una comunione con l'altro si può veramente
essere se stessi e costruire quell'immagine di persona che ciascuno coltiva
dentro di sé.
Da qui nasce l'amicizia. E' un bisogno fondamentale, forse non sempre avvertito
in tutte le sue valenze, un bisogno che si impone e trova i modi più
disparati per realizzarsi.
L'amicizia si presenta sempre in modi nuovi, diversi da una persona all'altra,
in continua evoluzione, ma è sempre un presentarsi all'altro, un
desiderare che l'altro si accorga di noi e ci accolga positivamente.
Da qui viene anche la fedeltà all'amicizia, una caratteristica decisiva
che quasi è spontanea e desiderata e coltivata con molta attenzione.
E' un condividere sé con l'altro, è un leggersi l'uno nell'altro
ed insieme leggere la storia che si dipana lungo i giorni vissuti insieme:
è il senso della propria sicurezza attinta nella presenza dell'altro
come garanzia di sé e coraggio di continuità.
Che gioia condividere!
Che gioia essere amici, spendere la propria vita in sintonia con l'altro
e trovare sempre una risonanza e un invito a proseguire, a scoprire dentro
di sé nuove sorgenti e nuove promesse di vita!
Che gioia essere amici, aprire il cuore senza eccezioni, avere il cuore
da amico aperto per tutti, trovando con ciascuno sintonie diverse e così
allargare le proprie capacità e sensibilità.
Che gioia essere amici, senza mai fare i conti sul dare e sull'avere, ma
sempre spendendo se stessi in un dono che allarga a dismisura la propria
ricchezza personale! E superare perplessità e paure, pigrizie e indugi,
per aprirsi anche accettando ferite più o meno profonde che aprono
il cuore e lo rendono ancora più vasto!
Che gioia essere amici e non aspettarsi nulla da nessuno, sapendo che sempre
tutto arriva alla nostra porta se siamo capaci di accogliere e di interpretare,
capaci di ricavare sempre un supplemento d'amore da ogni esperienza vissuta!
Anche l'amore nasce da qui, espressione di sé fino ad entrare nella
vita di un altro, fino a sentirsi l'uno per l'altro per sempre.
GIOIA DI AIUTARE
Che senso ha l'universo, la nostra galassia, il cielo, le stelle; che senso
hanno la terra, i monti, i fiumi, l'oceano, i prati, i boschi?
Talvolta ci si trova a riflettere su queste misure smisurate e quasi vengono
le vertigini; si avverte la grandezza che incombe su di noi e cerchiamo
di trovare per noi un posto, un significato.
E' una riflessione che può condurre a fare scoperte interessanti
e a individuare il senso autentico della presenza umana nell'universo, e
quindi a meglio situare noi stessi, il nostro carattere, il nostro lavoro,
tutto ciò che costituisce la nostra personalità.
E il destino dell'uomo quello di saper accogliere tutto, di definirne e
coglierne lo scopo: è la sua capacità di godere l'universo
intero. Tutto è a servizio dell'uomo!
E' questa la forza che domina l'universo? E' questa la forza che da ad ogni
cosa il valore e l'utilità? Sembra proprio di si. Sembra che tutto
sia fatto per servire a qualcos'altro, ogni cosa abbia la sua destinazione
in ordine alle altre. Tutto è a servizio di tutto. Nell'universo
sconfinato solo l'uomo ha la capacità di vedere, capire, cogliere,
dare un senso e servirsi di tutto, scoprendo che tutto è fatto per
lui, per la sua vita, perché possa sentirsi realizzato e felice.
Allora, se è così, si deve anche dire che anche l'uomo è
a servizio di tutte le altre creature umane. Sembra proprio che questo sia
il senso più vero dell'uomo: se così non fosse, non ci sarebbe
stato il progresso. Da qui nasce anche logicamente l'idea di un servizio
da rendere come espressione della propria capacità e anche come dimensione
del vivere umano. Ciò significa anche che compito di ciascuno è
assicurare quel tanto che è necessario a tutti, costruire quel tessuto
che sopporta il vivere quotidiano; è compito di ciascuno mettersi
al servizio degli altri. Da qui nascono le professioni, le arti e i mestieri;
l'intelligenza, la capacità, la tecnica, la ricchezza e la fantasia
di ogni persona diventano così non solo proprietà di ciascuno,
ma anche la base necessaria per la vita di tutti.
Che gioia servire, che gioia aiutare!
Non come schiavitù a padroni esosi e violenti, ma come offerta della
propria grandezza perché diventi di tutti e ritorni arricchita a
chi l'ha donata!
Che gioia servire, spendendo quanto si ha e si è, quasi come un prolungamento
del proprio essere, come un dono che straripa da se stessi e raggiunge l'altro!
Che gioia servire, vedendo che quanto si è costruito dentro di sé,
quanto si possiede perché conquistato giorno dopo giorno, diventa
una ricchezza immensa che cresce mentre viene accolta da altri!
Che gioia servire e vedere che le proprie fatiche, lo sforzo di un impegno
non facile dal quale è nata poi una competenza ed un benessere, hanno
generato una realtà più grande, dove confluiscono capacità
e competenze altrui, rendendo sempre più utile e prezioso il lavoro
fatto!
Che gioia servire, sentirsi utili al mondo, vedere partire da sé
richiami e valori, realtà e ideali che cambiano l'ordine delle cose
e fanno fiorire mondi nuovi più facili, più fraterni, più
carichi di bontà e di felicità!
Che gioia servire e vedere volti che si illuminano e trasmettere sguardi
di gratitudine, si serenità!
Che gioia servire e accorgersi che è l'unico modo per sentirsi felici!
(Agosto 2004)
LA GIOIA DI AMARE
Da quando l'uomo esiste e si esprime, sempre canta l'amore e sempre piange
l'amore perduto. Sembra che questa sia la ragione del vivere, l'unico scopo
dell'esistenza umana, sembra che tutto converga in questo spasimo del cuore,
in questa avventura mai finita.
Ed è così!
E' proprio l'amore che distingue l'uomo tra tutte le forme di vita, tra
le espressioni di esseri che in qualche modo hanno rapporto con lui.
Ma che cos'è questa dimensione, che cosa significa il continuo battere
del cuore, da che cosa viene nell'uomo questo tormento che si apre all'estasi
e così spesso è solo tormento e tensione insoddisfatta?
Sono queste le grandi domande dell'uomo
La persona umana sembra che non stia nella propria pelle e cerchi sempre
un'uscita verso gli altri; non sopporta alcun confine e tende ad invadere
spazi sempre nuovi; si espande e scavalca ogni confine. Questo è
l'uomo, una piccola creatura così finita nel tempo e nello spazio,
eppure così aperta e così bisognosa di espansione da non sopportare
chiusure, da rifiutare perfino la quotidiana esperienza della propria mortalità.
E' così che l'uomo ritrova se stesso e comincia a capirsi, a capire
la propria verità che sempre lo supera e lo apre a orizzonti inesplorati,
a incontri imprevedibili: è così che nasce e cresce l'amore,
quella inesauribile forza che occupa l'uomo e non lo lascia mai inerte o
passivo.
Così l'uomo, seguendo questa segreta sorgente che zampilla e scorre
nel suo intimo, risale alla propria origine e scopre paesaggi impensati,
scopre la bellezza ed il valore del suo esistere, del suo destino aperto
e senza confini. L'amore diventa il perenne fuoco che riscalda e infiamma
bruciando scorie e dando colori nuovi alle abitudini , alle situazioni che
sembrerebbero sempre uguali e sepolte dalla noia. Tutte queste novità
scaturite dall'amore attirano l'uomo a rapporti sempre più veri e
più profondi. Anche se l'uomo ha ancora paura dell'ignoto, di quell'avventura
che gli si apre davanti quando è cosciente di sé e lealmente
vuole accettarsi e realizzare tutte le sue potenzialità.
Che gioia amare!
Che gioia amare, abbattere con coraggio muraglie e difese costruite da sé
e da altri nell'intento di proteggere, ma diventate prigioni e cimiteri;
aprire porte e finestre perché entri luce e calore, ed esca quanto
dentro nasce e cresce senza limiti!
Che gioia amare, finalmente capire il mistero della propria persona, in
senso della propria storia!
Che gioia amare ed accorgersi che nessuno è indegno del nostro interesse,
nessuno è nemico o incapace di accogliere e godere il dono che viene
da noi!
Che gioia amare senza aspettarsi nulla, soltanto donare perché è
troppa la ricchezza che si racchiude in noi ed è solo donando che
possiamo realizzare noi stessi!
Che gioia amare e offrire un volto sorridente, un'accoglienza sempre pronta,
una ricchezza che è di tutto e da tutti ritorna su ciascuno!"
Che gioia amare e aggiungere via via nomi e volti in rapporti sempre più
aperti, senza eccezioni, con un cuore sempre più grande, sempre più
accogliente in una universalità senza confini! (luglio 2004)
LA GIOIA DI VIVERE
E' facile sentire da parte di giovani e di adulti un senso di insofferenza
della vita, una specie di dispiacere del vivere, quasi una condanna, quasi
un dovere da assolvere per forza, senza trovarci alcun gusto.
D'altra parte la storia di ogni giorno mette davanti gli occhi scene drammatiche
e tragiche di una vita impossibile, resa ancora più assurda da tutto
un contesto di ingiustizia e di indifferenza.
Tuttavia è altrettanto facile sentire voci di gioia e di entusiasmo
che inneggiano alla vita come alla più bella esperienza offerta alla
creatura umana. Bisogna però saper vivere.
La vita non è un fatto statico, ripetitivo, sempre uguale a se stesso:
la vita si apre ogni giorno e invita a leggerla, a scoprirne il sensi più
nascosti, sempre nuovi, sempre da inventare. Se ci si pone in questa ottica
e si è sempre disposti a seguire il dipanarsi delle situazioni che
si accavallano lungo i giorni; se si accetta la sfida di cose e persone,
di avvenimenti che si susseguono e sembrano cancellarsi l'uno dopo l'altro;
se non si perde il ritmo incalzante del tempo che scorre e fluisce senza
posa, allora la vita rivela ogni giorno il suo volto nuovo e attira nella
sua novità lo sguardo ed il sentire dell'uomo.
La vita è un canto infinito che cambia strofe e ritornello, e ogni
volta invita a entrare nel coro ciascuno con la propria voce e la propria
intensità: bisogna rispondere al richiamo del ritmo, delle melodie,
ed entrare con quanto di meglio si trova nel cuore e trovare un senso nuovo
al tempo che segna il vivere di ciascuno.
C'è sempre l'uomo, questa creatura imprevedibile, questo essere sempre
in cerca di nuove esperienze, capace di trarre impensabili frutti da rami
apparentemente secchi; c'è l'uomo che cerca e avverte dentro di sé
una inesauribile sorgente che inonda e feconda anche le più aride
zolle; c'è l'uomo che fa fiorire anche il deserto più sterile.
Questi sono l'interesse e la novità perenne della vita; è
questa la sfida che ognuno raccoglie secondo le proprie forze e debolezze,
spazi e limiti. Qui nasce la voglia di vivere, qui emerge la fantasia che
differenzia persone e giorni; qui anche si innesta la responsabilità
personale come risposta alla provocazione che nasce dall'interno e dall'esterno
di ciascuno.
Che gioia vivere così!
Che gioia ogni giorno scoprire in se stessi una voglia e una forza sempre
nuova, per sé e per coloro che ci circondano.
Che gioia saper seminare a ogni passo semi di vita, di novità, camminare
sulle strade del banale con nel cuore il canto della propria ricchezza,
del proprio desiderio di bellezza, di armonia, di pienezza.
Che gioia ogni giorno accorgersi che nonostante il tempo, le difficoltà,
gli insuccessi, c'è sempre una luce che invade gli anfratti più
bui del cuore.
Che gioia sapersi creature di Dio, compagni del suo compito di Creatore,
fatti a immagine e somiglianza sua, con dentro quell'anelito di eterno e
di infinito.
Che gioia poter rileggere nella propria piccola storia di ogni giorno l'infinito
romanzo d'amore di un Dio che si dona tutto alla sua creatura perché
possa realizzare la sua pienezza.
Che gioia sentirsi amati da Dio, dall'immenso, dall'infinito, dall'eterno,
e portare dentro di sé questo amore che è il senso stesso
della propria vita! (Giugno 2004)
IL VOLTO DELLA CROCE
La Pasqua che stiamo ancora celebrando nei suoi misteri in queste domeniche,
ci ripropone un avvenimento - la Risurrezione di Gesù Cristo - in
un momento in cui tanti sono i volti del dolore umano e del male storico.
I corpi straziati dal terrorismo, i volti soffocati dalla paura della guerra
e della fame, le espressioni della tristezza di tante persone segnate dalla
battaglia della vita, la sofferenza di ammalati e diseredati che segnano
la coscienza. Il dolore è parte essenziale e ineliminabile dell'esistenza
umana: qualunque tentativo si faccia per eliminarlo completamente dall'orizzonte
personale è destinato a diventare un'ulteriore violenza, perché
la sofferenza fisica e spirituale è la "cifra" del limite
individuale. L'esperienza del male nelle sue varie forme rappresenta lo
scandalo di un mondo che pare governato da una quotidiana volontà
di distruzione, inspiegabile dalla ragione.
Su questo universo di negatività si erge da duemila anni la Croce
di Cristo; una croce che, da semplice strumento di morte, valica i limiti
del tempo e dello spazio e diviene il segno esplicito di chi è davvero
l'uomo liberato dalla banalità del suo istinto e dalla tragicità
della sua esistenza. In quella Passione ogni persona si riconosce non tanto
perché essa ricalca la crudeltà del dolore che nessuno vorrebbe
provare, ma perché quel volto rivela e manifesta la profondità
ultima di amore e di dedizione in cui ciascuno ritrova ciò che desidererebbe
essere.
Gesù Cristo ha incarnato nella sua persona la capacità di
esprimere ad alta voce la sua verità, la capacità di difenderla
sino alla fine e senza compromessi
Egli ha insegnato in che maniera, senza ricorrere alla violenza, poter far
fronte a se stesso e al mondo.
In un tempo in cui discute di multiculturalismo e di confronto fra le religioni,
proprio la Croce ha una forza unitiva straordinaria perché esalta
la dedizione di chi, rinunciando a tutto per affermare il valore unico di
ogni persona, mostra che il male e la vendetta non sono l'ultima parola
della storia.
"Per noi uomini e per la nostra salvezza": è il significato
ultimo della Croce, e ciò è davvero una sfida per tutti a
vivere gli avvenimenti e le relazioni nella stessa ottica del Crocifisso.
L'uomo è salvato solo dal rapporto con Dio, dal gesto supremo dell'Amore
che offre tutto per il Bene di tutti.
Per questo oggi si teme la Croce, perché ricorda che la salvezza
della vita non è l'esito di uno sforzo, di tecniche, di una volontà
di potenza, di compromessi, ma solo l'avvenimento della gratuità
di Dio che offre se stesso per vincere la battaglia contro la morte, ogni
tipo di morte.
La Croce di Gesù è la risposta alle contraddizioni di oggi
e di sempre. (Pasqua 2004)
LA QUARESIMA AMBROSIANA
L'esodo d'Israele è stato la prima quaresima: Dio ha preso l'iniziativa
di guidare ed educare il suo popolo verso la libertà e la terra promessa.
Ma fu solo il nuovo Israele, Gesù di Nazaret, il Cristo, ad essere
così docile all'iniziativa del Padre da essere da Lui portato fino
all'esodo pieno e definitivo dalla morte alla vita, dalla condizione terrestre
a quella celeste. E' la Pasqua. I suoi 40 giorni nel deserto ne furono la
preparazione e la scelta cosciente.
La nostra chiesa, certamente già dal S. Ambrogio e quindi da 1600
anni, attualizza questo esodo nei 40 giorni di Quaresima per portarci alla
Pasqua come graduale partecipazione all'esodo di Gesù. I temi dell'iniziativa
di Dio e della nostra docilità, del battesimo e della nostra connessione
con i gesti di riconciliazione di Cristo, la novità e lo stile della
vita cristiana si intrecciano nelle messe di questo periodo, nelle letture,
nelle orazioni e nei prefazi, nelle stupende antifone.
Tre filoni in particolare guidano la meditazione biblica del Legionario.
La rievocazione del Battesimo nelle domeniche e nei sabati. La catechesi
morale, cioè la condotta dell'uomo nuovo uscito dal battesimo, è
tema che si distende nei giorni feriali delle prime quattro settimane. Dalla
quinta settimana è la passione di Gesù che domina, con gli
antefatti, le predizioni e le trame che conducono alla morte del Giusto
innocente. Ne fa da contrappunto la rievocazione dei molti Giusti biblici
cui Dio non ha mancato di portare soccorso e riabilitazione.
Infine, nei vangeli festivi, la liturgia concentra un itinerario di revisione
e contestazione dei nostri atteggiamenti interiori nei confronti della persona
del Cristo. In questo consiste la conversione: porsi nel modo giusto davanti
a Cristo, nostro Salvatore. E lo fa proponendoci in forma drammatizzata
i dialoghi e gli scontri tra Gesù e alcuni suoi interlocutori, analizzando
così i diversi modi di porsi davanti a Gesù: le diffidenze,
le incomprensioni, i rifiuti, le pigrizie,
tutte cose che spesso
trovano risonanza anche nelle nostre scelte.
Nella liturgia ambrosiana i venerdi sono aliturgici (cioè non si
celebra la S. Messa) e sono quindi giornate di attenzione particolare alla
Croce ed agli atteggiamenti penitenziali.
La quaresima si chiude la sera del Giovedì Santo, dove si apre il
sacro Triduo e la celebrazione della Pasqua. A questi giorni è dato
ampio spazio per aiutare a cogliere i temi di meditazione e di preghiera
che sono suggeriti dalle solenni azioni liturgiche proprie della Chiesa
Ambrosiana.
INVESTIRE NEI FIGLI
Si dice che il miglior investimento sia quello sui figli, ed è
vero.
Mettere le proprie energie ed i propri denari per crescere un figlio è
impresa nobile non solo sotto il profilo affettivo, ma costituisce anche
un merito ineguagliabile dinanzi alla storia. Ogni vita è preziosa
in sé, per il volto irrepetibile che presenta, ed è un miracolo
che rimanda alla totale gratuità del Mistero dell'essere , suscitando
lo stupore assoluto evocato dalla nascita e dalla gratitudine di quel dono
per cui una madre può essere paragonata all'amorosa bontà
creatrice di Dio.
Un figlio non è un prodotto o un bene di consumo; è un dono,
una grazia misteriosa data dall'amore umano che fa esistere un nuovo essere
con i tratti della storia dei genitori, anche se nell'irrepetibile originalità
di un soggetto ben distinto da essi. L'evento della nascita rivela la fisionomia
di ogni relazione, che è fatta da identità e differenze, di
prossimità e di distanza, di amore e di odio, nel gioco di una libertà
che può accogliere o negare, donarsi o allontanarsi dall'altro.
Così assume un nuovo significato la formula "investire sui figli":
non pensarli come proprietà privata da gestire a piacimento, ma come
di soggetti di una sfida della loro libertà di esseri diversi dai
genitori, benché totalmente implicati con loro.
Ogni figlio è come una freccia che i genitori lanciano nell'esistenza
perché possa percorrere la sua strada, ma si fermerebbe se non riconoscesse
il legame con il braccio che la scocca.
Investire significa "metter dentro" energie e risorse nell'educazione,
nell'impresa di far crescere una personalità adulta e matura che
giunga alla fine a poter dire "io" con libertà. Per questo
l'azione dei genitori non ha prezzo, né possibilità di essere
pensata in termini di ritorno dall'investimento. Generare ed educare è
il più gratuito e libero dono d'amore che non ammette mai la misura
riduttiva del dare e dell'avere.
Proprio come Dio ha fatto con noi. (febbraio2004)
"Fame" di pace
Da anni il primo giorno dell'anno è la Giornata della Pace, quasi
una sfida lanciata dal Papa al mondo. Sarebbe infatti ingenuo pensare che
un solo giorno di preghiera di milioni di fedeli sia capace di fermare le
guerre. Vi ricordate la giornata di digiuno proposta dal Papa il 5 marzo
dello scorso anno? In quel gesto per impetrare il dono della pace c'è
il segno di un valore dell'intera Storia che ha in sé un potenziale
di cambiamento da non sottovalutare. Anzitutto il digiuno (come la preghiera)
nella tradizione cristiana hanno il senso di riconoscimento che l'uomo non
è capace con le sole sue forze di costruire la giustizia e la pace
che desidererebbe, e che perciò è più ragionevole porsi
dinanzi all'Altissimo a domandare il buon esito degli eventi. Con ciò
si vuol rimettere nelle mani di Dio quel destino che da soli non si riesce
a governare, senza però rinunciare a nulla di quanto compete all'umana
responsabilità. Certamente siamo tutti consapevoli che non ci si
possono attendere effetti magici, ma già il mettere da parte la fiducia
nelle armi per confidare nella libertà dell'uomo e nella capacità
di guardare in alto, è un significativo passo tangibile di inversione
di mentalità che non può non aver ricadute sul consenso politico
e sulle decisioni dei governanti. Nulla a che fare dunque con un vago pacifismo
cattolico, ma la speranza semmai che l'uomo impari a superare la tentazione
della vendetta immediata e, alzando gli occhi verso l'infinito, cerchi nella
preghiera la risposta ai drammi della Storia.
Il fanatismo disperato ed esasperato cui poi assistiamo ormai da tempo,
è assolutamente sconcertante quando contiene la pretesa di dare una
valenza religiosa alla follia suicida ed omicida. Quale dio potrebbe essere
così nemico della vita da ordinare ai suoi fedeli di massacrare indiscriminatamente
quella di tante altre creature? Il vero rapporto con Dio nasce dalla coscienza
della sacralità dell'essere creato e quindi dalla rispettosa venerazione
di ogni manifestazione della realtà, avvertita come un'emanazione
della potenza divina. Il fanatismo, invece, è la pretesa di interpretare
la volontà di Dio attraverso la propria follia distruttrice, sino
a giungere al suicidio come manifestazione di una volontà divina
contro i nemici. Poiché Dio ascolta l'invocazione di ogni persona,
mettiamo in campo la preghiera, certi che la pace sta solo nella potenza
misericordiosa di Dio che salva e non nella disperazione dell'uomo che distrugge.
(gennaio 2004)
Festa della FAMIGLIA
Difendere la famiglia. E' il grido elevato all'Angelus di Domenica 28
dicembre dal Santo Padre il Papa.
La famiglia basata sul Matrimonio va difesa e promossa con gli sforzi di
tutti quanti credono nell'importanza di questo bene fondamentale della società.
L'ultima domenica di gennaio per noi di rito ambrosiano è la festa
della famiglia. Tutti sappiamo quanto sia in crisi la famiglia oggi e non
poteva quindi mancare il grido accorato del S. Padre il Papa per richiamare
tutti ad unire gli sforzi per il bene della famiglia a tutti i livelli.
Nelle parole del Papa riecheggia una preoccupazione che da sempre sta a
cuore all'anziano pontefice: "Nel nostro tempo un mal inteso senso
dei diritti viene talvolta a turbare la natura stessa dell'istituto familiare
e del vincolo coniugale." Fin dal 1981 nella "Familiaris Consortio"
aveva chiaramente delineato i "compiti della famiglia cristiana nel
mondo di oggi". Sono passati più di 20 anni e questo problema
è ancora più vivo ed urgente nel cuore del Papa. E l'invito
si fa ancora più pressante a tutti coloro che in qualche modo senza
distinzione di appartenenza hanno a cuore l'importanza della famiglia: "Occorre
proclamare con gioia e coraggio il vangelo della famiglia" E ancora
il Papa "alla scuola della famiglia di Nazareth ogni famiglia impara
ad essere fucina di amore, di unità e di apertura alla vita. Occorre
che a tutti i livelli si congiungano gli sforzi di quanti credono nella
famiglia basata sul matrimonio. Si tratta di una realtà umana e divina
che va difesa e promossa come bene fondamentale della società".
I cristiani ha detto ancora il Papa coinvolgendo tutti "attenti ai
segni dei tempi devono adoperarsi per sviluppare diligentemente i valori
del matrimonio e della famiglia; lo faranno tanto con la testimonianza della
propria vita, quanto con una azione concorde con gli uomini di buona volontà".
E il Papa infine non ha dimenticato che ci sono molte famiglie che soffrono
nel mondo e per tutte ha invocato una preghiera particolare a Gesù,
Maria e Giuseppe.
Ascoltiamo questo appello del Santo Padre il Papa, sia perché anche
noi abbiamo diverse famiglie in crisi sia perché anche tutte le nostre
famiglie hanno bisogno dell'aiuto della "Sacra famiglia di Nazareth".
(gennaio 2004)
Buon Natale!
Puntuale come tutti gli anni torna il Natale con le sue laiche liturgie
consumistiche e con le consuete intonazioni buonistiche: si moltiplicano
i consigli per gli acquisti, si cerca di recuperare qualche scampolo della
tradizione nei canti e nei simboli natalizi, si sottolinea anche il richiamo
ad opere di solidarietà per risvegliare un po' di generosità
sull'onda del ricordo dei doni dell'infanzia.
Ma per molti si arriva a Natale imprigionati da un torpore che rende difficile
pensare al radicale cambiamento della coscienza, e risuonano quasi strane
la prole con cui S. Agostino apostrofava i suoi fedeli: "Svegliati,
o uomo: per te Dio si è fatto uomo".
Eppure il Natale è proprio questo: il risveglio ad una novità
assoluta che dà compimento a tutto ciò che è umanamente
bello desiderare, poiché l'Assoluto, Dio, si è messo alla
portata dell'uomo; così che la carne di quel Bambino di Betlemme
si è definitivamente imparentata con la storia di ogni uomo che viene
in questo mondo, legando il suo destino a quello di tutti e di ciascuno.
La libertà che il Natale regala ai credenti è la liberazione
dallo sforzo di costruire da sé il significato dell'esistenza, perché
esso si è reso presente in quel Bambino, realmente nato da una donna,
che si offre allo stupore di chi lo guarda senza pregiudizi.
La vera letizia nasce, infatti, dall'incontro con un avvenimento, da un
nuovo fattore che si introduce nella realtà, proprio come avviene
quando comincia una nuova vita.
Il Natale è proprio il compleanno di Dio che si fa uomo!
(dicembre 2003)
Ci sono molte analogie fra la "piccola" Madre Teresa di Calcutta
ed il "grande" Papa che l'ha voluta innalzare alla gloria degli
altari: la comune radice slava, il destino di essere chiamati a percorrere
il '900 con una testimonianza eccezionale di fede e di carità, la
comune vocazione ad essere araldi della pace. Da un lato abbiamo una donna
che avrebbe voluto sparire agli occhi degli uomini pur di aiutare un povero
a morire; dall'altro un uomo che offre tutto se stesso (sino all'ostensione
pubblica del suo respiro affannato e della sua sofferenza) per testimoniare
il senso del vivere.
Nella figura di Madre Teresa è facile scorgere i tratti di una grandezza
che potremmo riassumere in tre fondamentali esperienze. Per prima lo sconfinato
amore all'uomo, ad ogni uomo, in nome della irripetibile dignità
e nella certezza che ognuno reca in sé l'immagine vivente di Dio.
Per questo, ed è la seconda caratteristica, la totale gratuità
nella condivisione di ogni povertà; una gratuità per cui anche
solo il tenere la mano ad un morente può dargli l'esperienza di essere
amato. Ma, ed è la terza dimensione della santità di Madre
Teresa, l'amore è per definizione senza limiti di razza o di appartenenza,
è cioè ecumenico. Madre Teresa è stata l'eloquente
immagine di una carità senza divisioni ideologiche e senza pregiudizi,
così da essere amata dagli induisti e venerata persino dai non credenti,
almeno come esempio di come tutti vorremmo essere. La nuova beata non invita
ad un superficiale ottimismo, facendo sperare in un'umanità raggiungibile
perché in qualcuno si è già realizzata, ma tendendo
a quella certezza che solo i santi (cioè i veri uomini) comunicano,
mostrando quale grandezza possa assumere la vita spesa nell'amore.
Merito di Giovanni Paolo II, così prossimo e consonante alla statura
cristiana di Madre Teresa, è di aver regalato l'esaltazione di un
esempio così eloquente, quasi a corroborare con il volto di questa
piccola suora il significato di tutta la sua fatica di Papa. (novembre 2003)
Il volto dei Dio nascosto intriga i benpensanti; la ferita ineludibile del
dolore e della morte, la ricerca del senso della vita, spingono verso l'ultimo
orizzonte. La ragione, piena di sé, forte delle grandi scoperte,
non tollera confini. L'emancipazione diventa anche emancipazione da Dio.
E questi - il Trascendente, l'Uno, l'Amato , l'Atteso dei secoli - è
ridotto tutt'al più ad essere "il Signore del nulla". C'è
chi cerca allora i "paradisi del nulla", i giardini della primavera
di un Dio minore, fatto a misura della ragione che sa e sola può
sapere. In questo chiuso orizzonte tutto diventa troppo corto e troppo breve.
Tutto diventa debole. Resta allora ancora qualcosa per cui vivere e amare?
E' allora che la ragione riconosce il suo limite; volendo tutto fondare,
si è scoperta essa stessa infondata. E' a questo punto che la ragione
può avvertire meglio il tremito di un passaggio, il fremere di una
voce di silenzio. Dio non viene prima, ma oltre la ragione, oltre le avventure
delle sue pretese, oltre i naufragi delle sue violenze. Nelle profondità
nascoste del desiderio, la ragione si riconosce superata da un orizzonte
più grande. La speranza riaccende la possibilità dell'esodo,
l'attesa di una patria intravista, anche se non posseduta. Fede e ragione
si incontrano su un nuovo confine dove tutto è in gioco, ed un nuovo
spazio è possibile per la domanda su Dio.
Sembra che per Dio nessun amore potrebbe avere pretese, se non la carità.
Ma è proprio così? E' proprio l'alternativa radicale la via
cercata dal Dio che si rivela? O il fatto stesso del suo rivelarsi dice
il desiderio di un possibile, impossibile amore (per noi impossibile) da
Lui reso possibile?
L'intera tradizione ebraico-cristiana ci dice che fede e ragione sono sempre
incarnate in una cultura, in un tempo, in uomini e donne di carne, lacrime
e sangue. Qual è dunque la ragione di cui parliamo oggi? E quale
la fede letta nella storia reale dei suoi testimoni? E qual è l'incontro
possibile, non tanto come bilancio di un cammino compiuto, ma come orizzonte,
attesa e promessa di un cammino da compiere? E come da questo incontro si
fa luce per pensare ad una sfida più alta, e riconoscere una possibile
via verso il Mistero? La ragione aperta può ascoltare le parole e
gli eventi dove l'Altro si dice come sorgente di vita e non di morte, riconoscendo
la dignità infinita dell'uomo davanti a Dio, messo in grado di amare,
fra il dono e l'impegno, fra preghiera ed azione. Le vele si aprono verso
il vasto mare della vita, del tempo; a spingere ancora la ragione allo soglia
del suo cosciente stupore; a fare il passo di un possibile, impossibile
amore verso Colui che è venuto, viene e verrà.
(tratto dal libro di Bruno Forte "LA SFIDA DI DIO. DOVE FEDE E RAGIONE
SI INCONTRANO" - Mondadori - pagg. 280 - 14,98)
E' passato il Natale, quando abbiamo visto moltiplicarsi i mercatini,
le mostre benefiche, le vendite per sostenere opere di solidarietà;
dalla colletta alimentare alle varie iniziative missionarie o a sostengo
di enti benefici. Sembra che solo il Natale ci faccia riscoprire l'attitudine
al dono, che spinge a condividere qualche frammento delle proprie risorse
con chi è meno fortunato. La parola "solidarietà"
descrive in modo sintetico le ragioni della generosità che non intenda
limitarsi al filantropico buonismo di un istante, ed indica il metodo di
un atteggiamento duraturo capace di ricadute anche sulle scelte sociali
e politiche.
Da dove nasce il dovere alla solidarietà, e perché superare
l'istintiva tendenza egoistica?
Due millenni di Cristianesimo hanno identificato nell'idea della carità
lo sviluppo dell'esperienza di comunione cui il fedele aderisce credendo
ad un Dio trinitario, ma anche ogni uomo di retta coscienza non può
non riconoscere la sua condizione che è allo stesso tempo mendicante
e mecenate, debitore e creditore, poiché ognuno parte da un debito
verso l'esistenza e da cui diventa chiaro che tutto quanto si possiede deve
in un certo qual modo essere restituito. La solidarietà nasce allora
dalla gratitudine per l'essere, una gratitudine che fa guardare tutti con
lo stesso sguardo con cui guardiamo noi stessi e vorremmo essere guardati.
In altri termini, quando si risveglia la coscienza della responsabilità,
subito si constata che la riuscita della vita personale non può prescindere
dal destino chi ci sta accanto, e che la domanda di salvezza presente in
ognuno, è assolutamente decisiva per tutti.
Perciò la prima solidarietà consiste nel condividere i bisogni,
per condividere il senso della vita, cioè farsi carico delle reali
necessità del povero per potergli testimoniare l'esistenza di un
senso positivo della vita, valido per tutti. Solidarietà è
dunque il primo passo per vincere l'estraneità e l'ostilità
verso l'altro, riconoscendo che, se tutti abbiamo bisogno, siamo anche tutti
abilitati a dare qualcosa (anche poco) a chiunque incontriamo, perché
ogni persona è una risorsa per sé e per tutti. Per questa
ragione non basta allargare i cordoni della borsa per sentirsi rassicurati
della propria bontà, occorre soprattutto educarsi e lasciarsi educare
per recuperare il valore del "sodalizio" che ci rende realmente
tutti responsabili tutti in "solido" della vicenda umana, nostra
e altrui.
Come a dire che l'origine della solidarietà non consiste in un'improbabile
generosità naturale, ma nella certezza di quel destino buono che
ci rende uomini, uniti nella stessa cordata che va alla ricerca della compiuta
felicità. (febbraio 2003)
Recentemente due autorevoli interventi hanno posto il senso della presenza
del Crocifisso nei luoghi pubblici: il Papa ha invitato a portare con fierezza
il segno cristiano per eccellenza nelle scuole e negli ospedali e, pochi
giorni dopo, il ministro Moratti ha difeso l'importanza e la legittimità
del crocifisso nelle aule scolastiche come segno distintivo della civiltà
da cui proveniamo.
Due richiami che recano domande urgenti, quali la libertà religiosa,
il rispetto della laicità nei luoghi pubblici, il significato della
Croce per l'uomo di oggi.
La prima constatazione è che l'uomo è un "essere simbolico",
una creatura che vive il rapporto con la realtà e sviluppa la propria
memoria storica attraverso simboli, cioè immagini significative che
penetrano la profondità delle cose, rendendo familiare il significato
ultimo anche di quei luoghi (di lavoro, di studio, di sofferenza, di assistenza)
in cui di giocano le esperienze di tutti. Nulla di strano perciò
che, essendo la nostra una civiltà fondata su radici cristiane, sia
il Crocifisso a campeggiare negli spazi più frequentati della vita
quotidiana, essendo divenuto il simbolo più eloquente per comprendere
la condizione umana.
Qualcuno potrebbe obiettare che ostentare pubblicamente il Crocifisso offende
la coscienza laica, ma è difficile pensare un segno più laico
ed universale di quello che incarna la suprema sofferenza e la morte, cioè
le esperienze che uniscono ogni uomo a tutti i suoi simili: la Croce infatti
non obbliga nessuno a credere al Cristianesimo, ma sicuramente evoca più
di ogni altra immagine il senso del dolore innocente e della morte, ricordando
quale è il destino di tutti, pur se interpretato dietro l'annuncio
della vita eterna che la speranza cristiana ha introdotto nella coscienza
collettiva come risposta all'ineludibile questione del vivere e del morire.
Occorre infine evitare che questa difesa del Crocifisso (laica o cattolica
che sia) cada nell'equivoco di essere un semplice apprezzamento di Cristo
da punti di vista parziali, perdendo di vista il significato vero per cui
vale la pena di proporre l'immagine di Gesù crocifisso a tutti. Cristo
è l'evento che offre agli uomini parole di verità e libertà,
di fiducia e di speranza, come ha ricordato il Papa. Esprime l'amore supremo
con cui si possono amare i propri simili, rispondendo al profondo desiderio
di essere salvati. In questa prospettiva la Croce ricorda a chiunque che
la salvezza viene da un "altro", da quel Dio vicino che si fa
compagno dell'uomo con una forma di presenza capace di condividere tutto,
sino alla morte. Perciò è giusto mostrare la Croce, per lasciare
un segnale di Colui che ha posto con la Risurrezione il sigillo della certezza
che dà speranza alla vita. (gennaio 2003)
È la comunità parrocchiale che viene posta al centro del Piano Pastorale con l'intento di accompagnarla in un cammino di rinnovamento che le consenta di riscoprire la sua capacità di accoglienza e il suo compito di annuncio.
Non si dimentichi che l'annuncio del Vangelo ha sempre avuto bisogno di uno spazio e un tempo in cui radunare in assemblea i credenti. La parrocchia è proprio la realtà che esprime lo stretto rapporto tra territorio e Vangelo, tra giorno del Signore, la domenica, ed Eucaristia. Una delle attenzioni primarie della pastorale deve andare dunque alla domenica "giorno speciale della fede, giorno del Signore risorto e del dono dello Spirito, vera Pasqua della settimana". Senza vivere la domenica non si può costruire una comunità parrocchiale, senza vivere l'Eucaristia domenicale non si cresce nella fede e non si trasmette la fede alle nuove generazioni: "spazio e tempo", infatti, sono dimensioni costitutive dell'essere umano ma anche della comunità ecclesiale e della parrocchia. Per i cristiani la domenica è un giorno irrinunciabile e nel nostro futuro sarà uno dei segni della "differenza cristiana" che chiederà una testimonianza vissuta con convinzione e anche con sacrificio, in un tempo affrettato e secolarizzato. Una patologia nel vivere il giorno del Signore significa una patologia nella vita cristiana personale e parrocchiale. La domenica salva i cristiani da una vita dissipata, dispersa, e li orienta all'attesa del Regno di Dio, all'incontro con il Signore vivente. Giovanni Paolo II, nell'invitare a riscoprire la domenica, ha esortato più volte con forza: "Non abbiate paura di dare il vostro tempo a Cristo!".
Sul territorio siamo chiamati a dare una testimonianza di vita cristiana,
ma anche ad accogliere apertamente e fraternamente tutti i segni con cui
lo Spirito di Dio ci precede nella vita quotidiana delle persone.
La comunità parrocchiale viene sollecitata a comprendere il significato
profondo delle relazioni umane, dell'annuncio di fede e della testimonianza
tra gli uomini e le donne che abitano in un territorio, ma altresì
a riconoscere la necessità della comunione e della collaborazione
con altre presenze pastorali vicine, che le consentono di aprire nuovi orizzonti
pastorali per raggiungere tutte le situazioni e gli ambienti di vita.
Un'impresa comune
L'azione missionaria della Chiesa coinvolge tutti i discepoli di Gesù, ciascuno nel proprio ruolo e secondo il proprio carisma e nessuno può dirsi estraneo o marginale rispetto a questo impegno. Tutti noi credenti siamo invitati a prendere coscienza delle proprie responsabilità e del nostro indispensabile contributo da offrire, consapevoli di non agire mai singolarmente e a livello personale, ma "costituiti" dall'elezione stessa di Gesù e sorretti da tutta la comunità ecclesiale.
L'opera dell'evangelizzazione missionaria, di cui il Piano Pastorale vuole essere espressione, è quindi "un'impresa comune" di tutta la nostra parrocchia, nella convinzione che, "vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l'energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità" (Ef 4, 15).
Annunciare la Speranza nel mondo di oggi per molti versi cupo e triste
è compito di ogni cristiano. Se siamo attenti la liturgia mette nel
nostro cuore questa speranza e la volontà di accogliere con gioia
il nostro Dio che si fa uomo accanto a noi.
Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore.
Re d'Israele è il Signore in mezzo a te, tu non vedrai più
la sventura. Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore
esulterà di gioia, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà
per te con grida di gioia, come nei giorni di festa. (Sofonia 3,14-18)
Il profeta ci invita a non scoraggiarci ma a confidare nel Signore e nella
sua venuta. E l'Apostolo Paolo nel brano seguente ci invita a vivere nella
gioia anche questo nostro tempo difficile pregando il Signore che porti
anzitutto la pace nei cuori.
Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi.
La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Non angustiatevi
per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste...
e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri
cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. (Filippesi 4,4-7)
E Giovanni Battista il precursore ci dipinge la figura del messia con un
tratto netto e duro. Il Cristo che sta per venire ci mette di fronte a scelte
decise e tante volte laceranti: "Non crediate che io sia venuto a portare
la pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada"
E alle folle che interrogavano Giovanni il Battista:" Che cosa dobbiamo
fare?" Giovanni rispondeva:
"Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare
faccia altrettanto... Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è
più forte di me, costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere
il frumento nel granaio; ma la pula la brucerà con fuoco inestinguibile."
(Luca 3,10-18)
Tutti noi diciamo: VIENI SIGNORE GESU'
(Novembre 2002)
Abbiamo appena celebrato la settimana di spiritualità sul tema
della preghiera: chi ha voluto ha partecipato agli incontri nei quali abbiamo
innanzitutto pregato. A margine di questa settimana di preghiera trovate
in questa pagina qualche preghiera diversa da quelle che solitamente facciamo.
Preghiera della malattia ( da A. Pangrazzi, Grido a te, Signore)
O Signore la malattia ha bussato alla porta della mia vita, mi ha sradicato
dal lavoro, mi ha trapiantato in un "altro mondo", il mondo dei
malati. Un esperienza dura Signore, una realtà difficile da accettare.
Mi ha fatto toccare con mano la fragilità e la precarietà
della mia vita, mi ha liberato da tante illusioni.
Ora guardo tutto con occhi diversi: quello che ho e che sono non mi appartiene,
è un tuo dono. Ho scoperto che cosa vuol dire "dipendere",
avere bisogno di tutto e di tutti, non poter far nulla da solo.
Ho provato la solitudine, l'angoscia, la disperazione, ma anche l'affetto,
l'amore, l'amicizia di tante persone. Signore anche se mi è difficile,
ti dico: sia fatta la tua volontà! Ti offro le mie sofferenze e le
unisco a quelle di Cristo. Ti prego, benedici tutte le persone che mi assistono
e tutti quelli che soffrono con me. E se vuoi dona la guarigione a me e
agli altri.
Preghiera: Amami come sei
Conosco la tua miseria, le lotte e le tribolazioni della tua anima,
le deficienze e le infermità del tuo corpo; - so la tua vita, i tuoi
peccati, e ti dico lo stesso: dammi il tuo cuore, amami come sei...
Se aspetti di essere un angelo per abbandonarti all'amore, non amerai mai.
Anche se sei vile nella pratica del dovere e della virtù, se ricadi
spesso in quelle colpe che vorresti non commettere più, non ti permetto
di non amarmi. Amami come sei.
In ogni istante e in qualunque situazione tu sia, nel fervore o nell'aridità
nella fedeltà o nell'infedeltà amami come sei..... voglio
l'amore del tuo povero cuore, se aspetti di essere perfetto non mi amerai
mai. (mons. Lebrun)
(Novembre 2002)
La preghiera per un cristiano è come il respiro dell'anima, ed è
anche l'atteggiamento che caratterizza tutta la sua vita. Mosso dallo Spirito
Santo e sull'esempio di Gesù, il cristiano parla con il suo Dio,
ne ricerca la volontà, entra nei suoi progetti di amore e di salvezza,
riceve aiuto e forza per essere disponibile con i fratelli. Così
leggiamo nel libro degli atti degli apostoli: i primi cristiani erano assidui
e concordi nella preghiera insieme con Maria. E tutti sappiamo come la preghiera
più conosciuta e cara al popolo cristiano è la preghiera del
S. Rosario. Già i primi cristiani alla Madonna guardavano come a
modello di preghiera in quanto perfetta imitatrice di Cristo. La Madonna
pregava Dio secondo gli usi del suo tempo con una disponibilità totale.
All'Angelo dell'annunciazione risponde in preghiera "Avvenga di me
quello che hai detto" e noi la diciamo beata perché ha creduto
e osservato la parola di Dio. Di Maria la bibbia ci presenta la stupenda
preghiera del "MAGNIFICAT"E così a Maria si ispiravano
i primi cristiani nel rivolgere la loro preghiera a Dio in un atteggiamento
umile e fiducioso. "Ave Maria": è la preghiera "mariana"
per eccellenza, ripetuta con fede e con devozione da tutti i cristiani.
Il testo che oggi recitiamo è composto da una prima parte di ispirazione
biblica e da una seconda parte aggiunta dalla devozione popolare. La prima
Parte rievoca il momento iniziale della redenzione: Maria che accetta il
ruolo di Madre del Salvatore. La seconda parte è la supplica confidente
per essere aiutati da tale Madre di Dio e madre nostra nelle difficili situazioni
materiali e soprattutto spirituali. A lei che è madre chiediamo di
intercedere presso il suo divin figlio, di renderci simili a lei e di accordarci
un cammino sicuro verso la patria del cielo. L'inno poetico antico diceva
così:-" Ave, o stella del mare, Madre diletta di Dio e sempre
Vergine, porta felice del cielo. Accogliendo quel saluto dalla bocca do
Gabriele, rendici stabili nella pace, cambiando il nome di Eva. Infrangi
le catene dei peccatori, dona la luce ai ciechi, allontana i nostri mali,
ottienici ogni sorta di beni. Fai vedere che sei madre; grazie a te accolga
le preghiere colui che per noi è nato e che ha accettato di essere
tuo figlio. O Vergine singolare, fra tutte la più mite, dopo averci
liberato dalle colpe rendi anche noi miti e casti. Accordaci una vita pura;
preparaci un cammino sicuro, così che un giorno ci rallegreremo senza
fine nella visione di Gesù". (Ottobre 2002)
E' questo il tema della giornata missionaria mondiale che anche noi celebreremo
il prossimo 20 ottobre. Giovanni Paolo II nel suo messaggio parla di pace
e di riconciliazione indicando come strada maestra della missione quella
del dialogo sincero. Un dialogo che fa parlare all'altro con stima e comprensione
annunciando con amore le verità più profonde della fede, che
sono gioia, speranza e senso dell'esistenza.
Un dialogo dice il Papa profondamente legato alla volontà di perdono,
perché colui che perdona apre il cuore agli altri e diventa capace
di amare, di comprendere il fratello, di entrare in sintonia con lui. D'altronde
la pratica del perdono, apre i cuori, risana le ferite del peccato e della
divisione e crea una vera comunione.
Soltanto l'amore di Dio, prosegue il Papa nel suo messaggio, capace di affratellare
gli uomini di ogni razza e cultura, potrà far scomparire le dolorose
divisioni, i contrasti ideologici, le disparità economiche e le violente
sopraffazioni che ancora opprimono l'umanità.
Dopo l'attentato dell11 settembre dello scorso anno il Papa più volte
ha invitato i cristiani e gli appartenenti ad altre religioni a lavorare
insieme per costruire un mondo senza violenza, un mondo che ama la vita
e progredisce nella giustizia e nella solidarietà.
Ricorda infine che per i cristiani la via da percorrere è la stessa
di quella di Gesù e cioè la via della Croce. Il cuore del
messaggio cristiano è l'annuncio del mistero pasquale di Cristo crocifisso
e risorto. Il volto dolente del crocifisso ci conduce a capire tutto il
suo grande amore. E' la Croce la chiave che da libero accesso ad una sapienza
che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo.
La Croce in cui già riluce il volto glorioso del Risorto ci introduce
nella pienezza della vita cristiana e nella perfezione dell'amore.
Il Papa conclude con l'invito a pregare per le missioni, e a misurarsi con
le esigenze dell'amore infinito di Dio, testimoniando con la vita la nostra
adesione totale a Cristo e al suo Vangelo. (Ottobre 2002)
Al termine delle esaltanti giornate di Toronto (Giornata Mondiale della
Gioventù 2002) sarebbe facile fare della retorica sui giovani del
Papa, ma diventa ancor più evidente la distanza tra questi giovani
generosamente impegnati e moltissimi altri abbandonati all'incertezza, alla
solitudine e, a volte, persino alla violenza cieca e irrazionale. Sono tante
le domande che si impongono: quali ragioni ideali possono orientare un giovane
se il mondo adulto offre solo modesti obiettivi di successo e di carriera?
Che cosa può mobilitare energie se non esiste una profonda corrispondenza
alle aspettative giovanili? E, in fondo, cos'è la giovinezza? l giovane
non è tanto un adulto incompiuto alla ricerca di autorealizzazione;
è già in sé un uomo, che vive tutto il desiderio di
verità e di bellezza, ma che, non conoscendo ancora né la
meta né la strada, rivolge tutte le sue energie in ogni direzione,
sprigionando la sua forza vitale ancora vergine in una disponibilità
totale, ma vivendo anche la debolezza di non aver esperienza della storia
che lo ha preceduto e scontando le incertezze del suo percorso. Così
l'istintiva forza dell'impeto giovanile può trasformarsi anche nell'inquietudine
dello "sballo", della "perdita" di sé, della
menzogna, sfigurando la bellezza tipica dell'età giovanile. Basterebbe
pensare all'innamoramento che dispiega una straordinaria capacità
di "uscire da sé", ma al tempo stesso può generare
le più violente reazioni di gelosia e di rifiuto, sino alle quotidiane
tragedie della follia. Il metodo del Papa è totalmente originale:
la sua proposta si rivolge ai giovani facendo leva sulle loro esigenze fondamentali,
prima fra tutte, il bisogno indomabile di felicità totale, offrendo
una risposta competente e realmente corrispondente alla ricerca del significato
ultimo ed esaustivo dell'esistenza. Il Papa propone Gesù ai giovani
non come generico e moralistico richiamo ai valori della pace e della solidarietà,
ma come compagnia reale ai loro bisogni e come esempio di un'umanità
compiuta che, al di là di ogni scetticismo, trova risposta ala sete
di infinito e al desiderio di gratuità. Per questo la certezza della
fede come senso della vita lancia i giovani nella grande avventura della
costruzione del futuro, consegnando loro un compito esaltante.Ma che fare
per i tanti ragazzi che non hanno incontrato una proposta così?Tocca
agli adulti riprendere la loro responsabilità: genitori, insegnanti,
educatori, non possono stare chiusi in orizzonti angusti e banali, ma sono
chiamati a "mostrare" che la vita è grande, e che per loro
si è già realizzato il compito dei sogni della giovinezza.
Oggi un giovane chiede solo di vedere adulti che siano davvero tali. Il
Papa ci ha fatto vedere cosa significa aver fiducia della gioventù,
senza vergognarsi della propria vecchiaia. (Ottobre 2002)
Abbiamo celebrato nella fede e nella gioia le feste dedicate alla Madonna
in modo particolare la festa dell'Assunta. Dobbiamo essere grati al Signore
per avere come patrona la Madonna. E la nostra devozione deve ogni volta
purificarsi e crescere. Dalle pagine dell'osservatore romano stralcio alcune
espressioni di rinnovato invito a una forte spiritualità mariana,
particolarmente nelle parole di Giovanni Paolo II, il papa del "Totus
tuus".
" Il Rosario è una preghiera semplice, ma profonda ed efficace,
per implorare grazie in favore delle famiglie, delle comunità e del
mondo intero".
"Affidate i lavori dei vostri incontri alla materna protezione di Maria
Stella Maris alla quale chiediamo di volerci condurre al Porto di un mondo
più solidale, più fraterno, più unito."
"La Vergine, Madre di Misericordia, che all'annuncio dell'Angelo concepì
il Verbo incarnato, ci aiuti a rispettare sempre la vita e a promuovere
concordemente la pace."
" A Gesù per Maria -la vera devozione a Maria è il mezzo
più sicuro per andare a Cristo, perché è compito della
Madonna condurci a Lui. Maria è lo stampo di Dio, il più adatto
a formare uomini di Dio. Chi si getta con fiducia nelle mani di Maria viene
in fretta modellato in Gesù e Gesù in lui."
Ancora:" il Rosario è il compendio del Vangelo, quindi uno strumento
molto idoneo per far giungere a tutti gli uomini il messaggio di Cristo."
" Maria veglia per la Chiesa - nascostamente e in spirito di servizio
e benignamente ne protegge il cammino, fino al giorno glorioso del Signore."
Anche noi dunque preghiamo con rinnovata fiducia la Madonna. (Settembre
2002)
Carissimi genitori,
la prima parola che vogliamo rivolgervi è "grazie." Vi
diciamo un grande grazie a nome del Signore perché mandate al catechismo
i vostri figli. Per capire questo gesto è necessario partire da una
domanda fondamentale: "Di che cosa hanno bisogno i vostri figli per
crescere e vivere?" Di essere nutriti innanzitutto, perché per
vivere bisogna mangiare! E ogni giorno date loro cibo sano.. e con amore.
Di questo hanno primariamente bisogno. Devono poi prepararsi alla vita ed
ecco che li mandate a scuola. Devono crescere sani e robusti e per questo
c'' la palestra, lo sport, le passeggiate, le vacanze al mare o in montagna.
Tutte cose necessarie, ma sono sufficienti? I vostri figli purtroppo non
hanno solo bisogni fisici, e culturali ma hanno anche uno spirito.
Essi sono figli vostri, ma prima ancora sono figli di Dio. E' Lui che li
ha creati. Voi misteriosamente siete stati i suoi collaboratori. Voi li
amate moltissimo e per loro avete fatto e fate tanti sacrifici. Ma sappiamo
che Dio li conosce e li ama da sempre, che Gesù li ha amati fino
a dare la sua vita sulla croce per la loro salvezza.
I bambini non sono gattini! Ai vostri figli non basta cioè il nutrimento
materiale, ma hanno bisogno anche di quello spirituale.
Essi hanno bisogno di imparare a pregare, come hanno bisogno di mangiare,
di giocare, di studiare!
Ebbene il catechismo risponde a queste esigenze profonde del loro cuore,
radicate nella verità del loro essere. Al catechismo imparano a conoscere
Dio loro creatore e Padre e i suoi comandamenti, che sono la vera legge
della libertà e della vita. Imparano a conoscere Gesù loro
salvatore, la sua vita, i suoi insegnamenti.
In molte famiglie, i figli hanno già ricevuto una prima educazione
religiosa che però ha bisogno di un approfondimento. A questa esigenza
risponde il catechismo.
Per questo a tutti voi chiediamo di sostenere con il vostro apprezzamento
l'impegno che la comunità cristiana, soprattutto con i catechisti
mette per comunicare ai vostri figli la fede nel Signore Gesù, per
educarli a vivere nell'amore di Dio e del prossimo. Vi salutiamo cordialmente
e vi assicuriamo un nostro ricordo particolare nella preghiera per voi e
per i vostri figli. (Settembre 2002)
Don Walter, le catechiste e i catechisti
"Salì poi sul monte, chiamò a se quelli che egli volle
ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici che stessero con lui
e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare
i demoni". ( MC. 3,13 - 15 ). Da questi versetti del Vangelo di Marco
gli incaricati della Pastorale diocesana hanno tratto le parole Stare con
il Signore che vogliono caratterizzare il tema del nuovo anno: la preghiera.
Lo scopo che si vuole raggiungere non è solo il ricupero della Preghiera,
quasi un banale invito a tornare a pregare, ma quello di offrire un insieme
organico di proposte che aiutino le comunità cristiane e i singoli
a porsi davanti al Signore, a stare con lui, per essere da lui inviati.
Tutta la vita cristiana dunque e tutte le attività illuminate dalla
preghiera.
Nella lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte lo stesso Santo Padre il
Papa inserisce il tema della preghiera nella prospettiva in cui deve porsi
tutto il cammino pastorale che è quello della Santità. C'è
bisogno scrive ancora il papa che il cristianesimo si distingua anzitutto
nell'arte della preghiera. " Signore insegnaci a pregare" diciamo
come gli Apostoli. Nella preghiera si sviluppa quel dialogo con il Signore
che ci rende suoi intimi. La separazione tra vita di preghiera ed esistenza
di ogni giorno è atteggiamento talmente diffuso che rischia di alterare
il volto spirituale delle comunità e delle persone. Scopo di un anno
pastorale dedicato alla preghiera è quello di proporre tutte le strategie
utili a ricreare un giusto rapporto tra preghiera e vita.
Ci lasceremo pertanto anche noi coinvolgere da questo tema della preghiera
per rendere le nostre assemblee festive e il nostro modo di pregare più
aderente al nostro essere cristiani capaci di stare con il Signore. (Settembre
2002)
"La sofferenza è una chiamata a manifestare la grandezza
morale dell'uomo, la sua maturità spirituale": in queste parole,
scritte da Giovanni Paolo II nel 1984, a pochi anni dall'attentato e dalla
prima esperienza di ricovero ospedaliero, sta la vera chiave di lettura
del senso di quell'aggravarsi della salute del Papa che ha riaperto il dibattito
sulle sue possibili dimissioni. Il Papa sta male ed è sotto gli occhi
di tutti, con quella sua straordinaria caparbietà con cui egli continua
la sua missione senza concedersi quel di cui qualunque anziano, nelle sue
condizioni, avrebbe pieno diritto. Perché non gustare un meritatissimo
riposo? Perché sottoporsi all'umiliazione di mostrare al mondo la
propria situazione di declino e di una vecchiaia senza onore? Il mistero
della sofferenza del Papa è tutto racchiuso nella certezza del messaggio
di cui è responsabile e dell'indomita volontà di testimoniare
qualcosa di cui non ha la piena disponibilità, come ha scritto: "allorchè
questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l'uomo
è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono
in evidenza l'interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo
una commovente lezione per gli uomini sani e normali". Ecco il punto:
la malattia e la vecchiaia non sono una vergogna da nascondere, una contraddizione
da dimenticare; sono un segno (uno dei più esaltanti e mortificanti
insieme) della condizione di ogni persona. E l'essere Papa non esonera dall'affrontare
il peso degli anni o il tremore del Parkinson: semplicemente li mette sotto
gli occhi di tutti e li amplifica perché ricorda che a nessuno è
dato di sfuggire la sofferenza. Anzi, per l'uomo Woityla anche gli ultimi
frammenti dell'umano diventano occasione di fare memoria di Cristo, e la
sua stessa persona, ancor prima delle sue parole, diventa rivelazione del
mistero del positivo che la redenzione restituisce ad ogni età e
condizione della vita. Basta accettare di essere al proprio posto confidando
in Dio, ed eco che tutto si trasforma: perfino il corpo incurvato del Papa
si trasforma in segno di speranza oltre ogni apparenza.
C'è anche da chiedersi cosa Dio vuole insegnare alla Chiesa e al
mondo con una figura così scolpita dalla sofferenza. Un Papa disabilitato
dalle sue funzioni mediatiche o di rappresentanza rimane comunque Papa,
cioè padre, come un papà rimane tale per i suoi figli anche
se dovesse vivere una lunga agonia prima di morire. Non ha senso preoccuparci
di qualcosa di cui si occuperà il buon Dio meglio di quanto sappiano
fare i nostri suggerimenti. A noi resta solo la preghiera e l'augurio: "Ad
multos annos!". (Settembre 2002)
Il XX secolo ha un'alta concentrazione di Papi santi: da Pio X a Giovanni
XXIII, a Paolo VI di cui si è aperta la causa di beatificazione,
fino a Giovanni Paolo II che molti sentono già santo per l'eroismo
con cui svolge tenacemente la sua missione. Ma che cos'è la santità
di un Papa? Con temperamenti diversi e secondo un proprio personale carisma,
ogni pontefice dedica la vita a Cristo per il bene della Chiesa intera,
accogliendo in letizia la volontà divina dentro le vicende della
storia, mettendo l'energia della libertà a disposizione dei piani
della Provvidenza. In quest'ottica la carica di Pontefice non è un
lasciapassare verso la santità, ma è una responsabilità
in più perché il cuore possa discernere cosa Dio chiede e
non cosa gli uomini si aspettano dal Vicario di Cristo.
Pensiamo al dramma di Pio XII che ha vissuto la fedeltà alla sua
missione nel tragico periodo della guerra. O a Giovanni XXIII che, dopo
una vocazione da diplomatico e da pastore, ha accompagnato la primavera
dello Spirito del Concilio Vaticano II. Ma soprattutto Paolo VI che un miracolo
in un certo senso lo ha già fatto in vita tenendo saldo il timone
della Chiesa in un periodo di tensioni e tempeste ecclesiali. La sua santità
si è mostrata nella fermezza con cui ha tenuto l'unità della
Chiesa nel periodo post-conciliare, senza perdere il senso delle certezze
della Tradizione.
Si è detto di lui che fosse un uomo problematico, incerto, dubbioso,
in fondo triste e angosciato, ma ha dedicato un intero documento alla gioia
cristiana; lo si rappresenta come fine intellettuale aperto alla cultura
ma con pochi doti comunicative, ma è l'autore di una insuperabile
lettera sull'evangelizzazione e l'iniziatore dello stile dei viaggi apostolici
per il mondo; si è data di lui un'immagine austera e solitaria, ma
sua vita è stata spesa nel totale servizio ad una Chiesa percepita
come comunione, in una sobrietà personale significata da quella bara
di legno chiaro, a lungo applaudita dalla folla da un popolo che ha subito
riconosciuto la santità, anticipando il meticoloso processo dei Tribunali
ecclesiastici.
Qualcosa del genere sta accadendo ai nostri giorni nei confronti di Giovanni
Paolo II, tanto amato perché invita ad una "santità di
base" dando il personale esempio della santità ai vertici della
Chiesa. (maggio 2003)
PASQUA: RISORGERE A VITA NUOVA
Dai Getsemani al Calvario, fino all'appuntamento
con il Risorto
C'è una definizione che Gesù da di se stesso, proprio di
fronte alla morte dell'amico Lazzaro: "Io sono la risurrezione e la
vita". E' la definizione sulla quale si basa la nostra fede cristiana
che nella Pasqua ritrova la forza e la gioia della propria sequela, della
adesione al mistero di Gesù, il Verbo fatto carne. Per questo è
urgente sostare al Getsemani prima di arrivare al Calvario, prima di tornare
a quel giardino ai piedi del patibolo dove avvenne l'incontro gioioso, inizio
di una speranza certa e di una riedificazione della storia umana. E' nel
Getsemani che Gesù assume su di sé il peso del male dell'uomo;
è lì che suda sangue nella percezione dell'immensa e perenne
tragedia dell'uomo di sempre, incapace di lasciarsi guarire dall'amore di
chi lo ha pensato e lo ha voluto ancor prima della creazione del mondo.
L'agonia di Gesù, la sua preghiera ripetuta nella lotta interiore
tra la propria volontà e quella del Padre, il conforto portato dall'angelo
e la decisione finale "Andiamo: è giunta l'ora!" esprimono
tutto il mistero di un amore senza limiti e di un dono totale e perenne.
Ecco la croce, innalzata sul Calvari: è il trono di Gesù,
la sua ora finalmente giunta, espressione completa della sua identità
di redentore. Dal susseguirsi perenne del tempo nel fluire dei secoli, giunge
a quel segno di morte l'ondata crescente del peccato, del male, della morte
spirituale e materiale; giunge al Figlio dell'uomo e in lui viene assorbita
e lavata, svuotata da ogni germe negativo. Muore l'innocente: tutto è
finito: ha vinto l'odio, la violenza, la falsità, e l'uomo è
rimasto vittima ancora una volta dei potenti.
Il Calvario è diventato il centro del mondo, il punto nodale della
storia umana. Qui si è incontrata la debolezza e l'assurdità
umana con l'amore senza limiti, il perdono immeritato. Il povero condannato
è deposto in un sepolcro nuovo. Comincia il ricordo, la tristezza
per chi è mancato; forse comincia l'attesa di qualcosa che venga
ad incoraggiare e sostenere i pochi discepoli rimasti. C'è solo da
attendere che spunti il giorno dopo la festa per poter tornare all'appuntamento
inutile con un morto.
Ed è proprio quest'appuntamento che cambia di colpo e per sempre
la storia umana: quel morto non è più lì, e si presenta
vivo e luminoso a chi ancora può vederlo, ascoltarlo, rimanere con
Lui. E' il segno della vittoria, della vita rinata; è il segno del
grande mistero consumato in quel medesimo luogo e ora rivelato nella gioia
del ritorno alla vita. E' ancora lui, il maestro, l'amico, il confidente
pronto a perdonare e ridonare coraggio e fiducia; è lui che ora inizia
il nuovo cammino dell'umanità rinnovata, liberata dal dominio della
morte e del male Da quel mattino la storia umana porta nel suo grembo il
nome della risurrezione, un perenne anelito di eterno e di infinito, un
tormento di santità. Cristo è risorto! E' il vivente, è
l'Uomo nuovo nel quale ogni uomo è radicato, è l'amico e il
maestro che troviamo sulle nostre strade buie e solitarie. Il segno delle
sue piaghe aperte nei suoi giorni mortali sono medicine con cui guarire
debolezze e ferite del vivere quotidiano. Sarà l'Eucaristia, memoriale
perenne della sua passione, morte e risurrezione, che ogni volta ci darà
con la certezza del suo amore la possibilità di liberarci dal male
e risorgere nella vita nuova, fedele a Lui e al suo Vangelo, per la salvezza
nostra e del mondo.
PARROCCHIA, NON PERDERE LA SPERANZA!
(da una riflessione di mons. Erminio Villa)
La Parrocchia non può che essere missionaria, cellula viva del
territorio, presenza discreta ma efficace nel cuore del mondo: per questo
è chiamata a diventare sempre più coinvolgente e dinamica,.
Imparando a scendere nelle strade, a entrare nelle case, a occupare le piazze;
così come è chiamata a farsi vicina ai "lontani",
ad aprirsi al confronto con le altre culture, a gridare dai tetti la sua
fede. Affrontando a viso aperto l'indifferenza del mondo, con l'annuncio
chiaro e libero, del Vangelo.
Non è più il tempo di esitare, ne è più possibile
cullarci sul "si è sempre fatto così". Una Chiesa
missionaria è una Chiesa coinvolgente, in cui a nessuno è
concesso di stare (o di mettere qualcuno) ai margini. Una Chiesa e dei cristiani
che sanno rileggere la propria storia e scrutare i segni dei tempi. Che
è capace anche di inventare occasioni di aggancio, dalla proposta
di itinerari formativi adatti a tutte le età, condizioni e stati
di vita, alla partecipazione attiva e consapevole nelle celebrazioni liturgiche,
ai diversi servizi di carità,
Dobbiamo sentire sempre più pressante il richiamo ad essere dinamici
nel percorrere le strade degli uomini per incontrare i giovani, ed entrare
nelle case per condividere con le famiglie i centri di ascolto, i gruppi
di preghiera, come i momenti di festa, senza ignorare i luoghi della sofferenza,
della cultura, del tempo libero, della politica.
Una Chiesa missionaria diventa allora una Chiesa vicina, che sa mettere
ciascuno a suo agio, sa farsi presenza per tutti ed è capace di mostrare
ascolto, interesse e simpatia per tutti.
Non c'è tempo da perdere: la speranza non deve andare perduta. Nonostante
le difficoltà del momento, pieno di ansie e di trepidazioni, anche
questo è "il giorno della salvezza", perché "la
misericordia del Signora dura per sempre"!