La chiesa di Ligurno
E dedicata a San Rocco e alla Madonna della neve . Mancano però fonti documentali che contribuiscano a risolvere alcune questioni aperte circa la costruzione della chiesa. Soltanto una tarda relazione, stesa in occasione di una visita pastorale, nel 1930, consente di attribuire l'edificio attuale a lavori intrapresi tra il 1630 e il 1640.
La costruzione è semplice e si caratterizza, all'esterno, per
il portichetto aperto in facciata e il campaniletto, dalla singolare (ma
non infrequenze nell'area) pianta triangolare. L'edificio è frutto
di un'unica fase costruttiva seicentesca; all'interno, coperto con ampie
volte a crociera, lungo la parete sinistra, sopra un basamento d'altare,
trovò riparo un affresco più antico, del XVI sec., opera di
Guglielmo Jotti da Montegrino che firmò l'opera e la datò
29 agosto 1517e appartenente ad una precedente chiesa esistente nella località,
con dedicazione a S. Maria e demolita senza lasciare traccia.
La chiesa si sviluppa in un'unica aula per fedeli di forma rettangolare;
su questa s'innesta la cappella maggiore, quadrata. Dietro il presbiterio,
due porte conducono ai locali adibiti a depositi e sacrestia.
L'altare maggiore antico, opera tardo neoclassica in marmi policromi, s'innalza
sulla parete di fondo del presbiterio. Racchiude un ingenuo affresco, coevo,
ma assai ritoccato, con la Madonna, il Bambino e i santi Rocco e Sebastiano.
Si conserva la balaustra settecentesca di delimitazione verso l'aula fedeli.
Attorno al 1967, per dare immediatamente corso alle prescrizioni conciliari,
fu collocata una nuova mensa d'altare mobile al centro del presbiterio,
salvaguardando, in tal modo, l'assetto di quel settore della chiesa, così
come ereditato. La mensa d'altare si presenta oggi come un tavolo ligneo
ornato sul frontespizio da un bassorilievo con l'Ultima Cena di Leonardo.
La festa della frazione si celebra tradizionalmente la prima domenica dagosto,
vicino alla festa liturgica della Madonna della neve.
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La chiesa di San Giorgio a Sarigo
La costruzione della chiesa,
nelle forme che ancora oggi per buona parte si ammirano, è ascrivibile,
per l'adozione di moduli del romanico maturo, alla metà del XII sec.
A quel tempo risalgono l'abside, a profilo semicircolare, l'aula fedeli
e il campanile, singolarmente innalzato nella mezzeria della facciata, di
cui la chiesa, di fatto, è priva.
Gli interventi compiuti nel corso del XVI sec. non alterarono l'assetto
cristallino della chiesa d'età romanica; vanno comunque segnalati,
soprattutto per via del ciclo di affreschi nell'abside che, già presente
al tempo delle prime visite pastorali (1570 circa), è stato finalmente
ricoperto, sotto gli scialbi, in anni recenti. Pure al XVI sec., o gli inizi
del XVII sec., vanno riferiti i lavori che portarono alla creazione di due
volte a crociera sopra le campate dell'aula fedeli, un tempo con soffitto
ligneo sorretto da cavalletti a vista.
Entro il 1683 fu compiuta la riforma più radicale: l'invaso della
chiesa fu raddoppiato chiudendo con pareti un portico che, in precedenza,
si allungava sul fianco settentrionale dell'aula fedeli. La chiesa antica,
in sostanza, fu inglobata in una nuova, di poco più ampia, ma sopravvisse
integra e perfettamente leggibile nei suoi caratteri originari.
Nel 1985 (parroco don Walter Casola) venne rifatta la copertura in piode; i lavori sono stati diretti dall'arch. Fiorenzo Ramponi di Porto Valtravaglia. Nel 2012 grazie alla sponsorizzazione privata dei lavori, è stata avviata un'operazione di restauro conservativo all'interno della chiesa, interessata da preventive campagne di scavi archeologici e di sondaggi stratigrafici. In tal modo, è stato possibile recuperare sia significative tracce della chiesa romanica e di alcune sue fasi costruttive, sia l'intero ciclo di affreschi nell'abside di cui si era a conoscenza, sino ad allora, solo per via documentale. I lavori sono stati diretti dall'architetto Luigi Terrenghi di Parabiago (Mi). Il restauro conservativo dei cicli affrescati è stato condotto dal laboratorio di restauro di Maria Luisa Lucini.
Il S. Giorgio di Sarigo presenta, più di ogni altra chiesa dell'Alto
Verbano Lombardo, "un'architettura unitaria, capace di renderci ancora
il senso pieno di un'epoca e di uno stile" (Frigerio, Mazza, Pisoni).
Dell'edificio originario restano il campanile e l'abside, "costruiti
con grande abilità e senso formale". Il campanile è meno
slanciato rispetto ai modelli comaschi da cui, apertamente, deriva. Probabile
sia stato ridotto nel corso dei secoli. Mostra, su tutte e quattro le facciate
in pietre ben lavorate, campiture delimitate da lesene e coronate da file
di archetti ciechi. L'abside, esemplare lavoro di tecnica muraria, è
scandita da due esili semicolonne, con piccoli capitelli lavorati; gli archetti
ciechi sono ricavati a due a due da un blocco unico di pietra, di vario
tipo e con spiccato senso cromatico nell'accostamento. I peducci sono intervallati
da blocchetti di "tufo" e decorati con motivi figurativi.
La chiesa, a doppia navata, è correttamente orientata. L'ingresso,
per la presenza del campanile in facciata, avviene sul fianco laterale rivolto
a monte (sud). L'abside presenta, per l'accurato accostamento di pietre
di diversa natura, uno spiccato senso cromatico, segno della capacità
del romanico maturo, pur in un contesto rurale e con mezzi semplici, di
raggiungere elevate qualità estetiche e decorative.
Il catino absidale è interamente rivestito di affreschi, già
scialbati nel 1567. Il ciclo, recentemente recuperato, attende ancora una
corretta identificazione iconografica e l'attribuzione ad una bottega operante
tra Alto Milanese e il lago Maggiore.
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La chiesa di San Rocco a Porto
Con il rifacimento della copertura del timpano di facciata effettuato
nelle scorse settimane, possono dirsi terminati i lavori di restauro della
chiesa dedicata a san Rocco.
La chiesa era già stata oggetto di un ampio restauro nel 1980-81
(parroco don Carlo Rimoldi) ed i lavori terminarono nel 1983, in occasione
del 350° di fondazione della chiesa. Venne ripassato il tetto, eseguita
l'imbiancatura interna ed esterna, il portone, il sagrato, l'altare, questo
con il recupero di alcuni pezzi delle balaustre della chiesa parrocchiale.
Un ulteriore intervento, avviato nel 2014 per desiderio del compianto don
Walter, prevedeva il rifacimento del tetto, terminato nel 2015.
L'occasione dei lavori ha permesso di portare a terra la campana per sottoporla
ad un necessario restauro. L'incarico era stato affidato alla geom. Angela
Riganti di Castelseprio che, prima di effettuare un vero e proprio restauro,
ha eseguito indagini chimiche e stratigrafiche allo scopo di acquisire dati
utili sia al successivo lavoro di restauro sia al riconoscimento dei materiali
e delle tecniche esecutive del manufatto. Sono state effettuate opportune
prove di pulitura, per una corretta e reale valutazione dello stato di conservazione
delle superfici originali.
Sono stati sostituiti il batacchio e la ruota, mentre si sono conservati
i ferri di aggancio ed il supporto in legno, tutti restaurati e protetti
con appositi materiali resistenti al tempo.
Il risultato finale è stato eccellente e l'intervento ha fornito
interessanti informazioni sulla campana, la cui fusione è avvenuta
36 anni dopo la costruzione della chiesa. Era infatti il 1633 quando l'antico
edificio veniva ampliato e trasformato così come lo vediamo oggi.
Anzitutto la dedica: "Ave Maria Gracia anno 1669"; poi le quattro
figure che adornano la parte centrale: la Madonna con il Bambino, san Rocco
con cane e bastone, sant'Ambrogio con mitria e flagello, il Cristo risorto
con la croce. Sotto la figura della Madonna appare una croce sormontata
da una corona.
L'edificio fu costruito nel 1523, forse in segno di riconoscenza per una
scampata ondata pestilenziale. Si trattava, di fatto, di una semplice cappella
aperta, ossia senza facciata, doveva essere di forma quadrata (la prima
parte dell'attuale navata) con ingresso dalla strada e con un solo altare
sul quale era dipinta una Madonna di Loreto, circondata da santi popolarmente
invocati contro le pestilenze.
All'interno si conserva, sulla parete destra, lo strappo di un affresco
cinquecentesco (1523) appartenente alla prima fase costruttiva della chiesa.
Raffigura la Madonna col Bambino nell'atto di proteggere la chiesa parrocchiale,
circondata dai santi Sebastiano, Rocco, Cristoforo e Antonio abate (o Biagio).
L'affresco si colloca nell'area di produzione della bottega di Giovanni
Battista Lampugnani da Legnano.
La chiesa venne ampliata nel 1633, mediante una sottoscrizione già
iniziata il 25 novembre 1630 con apposito atto notarile, perché il
santo preservasse il paese dalla peste.
L'anno decimo del pontificato di Urbano VIII, il prevosto di Bedero don
Orazio Martignoni, il giorno 9 agosto 1633 ricevette dalla Sede Apostolica
la delega per procedere alla benedizione della chiesa. Il 30 settembre 1699
Chiara Beltramini moglie di Francesco Castellotti, detto il Canobino, lasciò
per testamento 600 lire in favore della chiesa di s. Rocco perché
si celebrasse una messa di suffragio per Giovanni Battista Isabella.
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La chiesa di Santo Stefano a Domo
La chiesa sorge nel complesso della frazione di Domo, già centro
plebano di rilevante antichità e di riferimento per l'intero territorio
dell'alto Verbano Lombardo. In questo contesto, S. Stefano avrebbe svolto
il ruolo di piccolo oratorio per le funzioni invernali, accanto alla chiesa
"grande", ancora conservata, ancorché alterata, adatta
alle cerimonie estive, e ad un battistero recentemente ripristinato all'antico
uso. L'attuale S. Stefano corrisponde al solo presbiterio della chiesa ricostruita
probabilmente tra XIV e XV sec.; la navata, infatti, fu trasformata in casa
coadiutorale nel corso del XIX sec. Pertanto, lo spazio oggi dedicato alle
funzioni si articola su una pianta sostanzialmente quadrangolare e si conclude
con una bella volta a crociera costolonata innestata a considerevole altezza.
Le murature sono in pietrame misto, a sezione normalizzata. L'ingresso è
rivolto alla piazza pubblica interna al complesso per mezzo di una scalinata
e di una bella porta di sapore rinascimentale, che immette direttamente
nel ridotto presbiterio. Di rilevanza, in relazione ai luoghi, il ciclo
affrescato che si sviluppa sulle tre pareti superstiti del presbiterio e
sulle vele della volta: vi sono raffigurati, tra i soggetti riconoscibili,
i Padri della chiesa latina e gli Evangelisti (sulla volta), una grande
Crocifissione (parete absidale) e, sulla parete laterale meridionale, una
Discesa al Limbo. Una fascia interiore di raccordo presenta una teoria di
Apostoli.
I cicli affrescati interni costituiscono l'elemento di maggiore interesse
della piccola chiesa. Un tempo estese a tutto lo spazio sacro, le raffigurazioni
sono oggi visibili nel solo presbiterio che, nonostante gli scialbi ottocenteschi,
rappresenta il complesso di affreschi di maggior interesse dell'intero Alto
Verbano Lombardo. Per buona parte, si tratterebbe, secondo recenti studi,
di lavori dei primi decenni del XVI sec. della bottega locale di frescanti,
diretta da Guglielmo Jotti da Montegrino.
La possibilità di retrocedere almeno al X sec. la fondazione della
chiesa di S. Stefano è permessa dalla sopravvivenza, nel centro plebano
di Domo, entro il quale sorge la chiesa stessa, di un edificio autonomo
ad uso di fonte battesimale, conservatosi ancora leggibile nelle caratteristiche
riferibili ad età protoromanica. Col battistero e la chiesa plebana
di S. Maria Assunta (oggi parrocchiale), S. Stefano componeva un complesso
che replicava, in modi semplici, gli schemi adottati nei centri maggiori
e che prevedevano, accanto al battistero, una chiesa grande in funzione
di chiesa estiva e una chiesa più piccola, per le funzioni invernali,
quale, per l'appunto, sarebbe stata S. Stefano.
I caratteri attuali dell'edificio e la mancanza di studi approfonditi non
aiutano a determinare se, nelle forme attuali, la chiesa sia frutto di una
fase costruttiva di rilevante antichità o, invece, di una risalente
alla fine del XIV sec. o all'inizio del secolo successivo. La presenza di
un solido abside quadrangolare, innestato su un'aula fedeli rettangolare,
infatti, è elemento che induce tanto a pensare ad una ricostruzione
tre o quattrocentesca, tanto a moduli diffusi tra alto e basso medioevo.
Sembra deporre a favore di una datazione più recente la bella porta
d'ingresso, coronata da un attico classico, che parrebbe lavoro quattrocentesco
eseguito in contemporanea con importanti lavori interni (inserimento di
volte a crociera sul presbiterio) e di rilevanti cicli affrescati .
A partire dalla metà del XVII sec., l'oratorio venne adibito ad uso
di cappella per le sepolture, in appendice al cimitero che si estendeva
tra il medesimo, la plebana di S. Maria Assunta e il battistero. Ciò
determinò la progressiva decadenza, sino a che, nel 1849, fu soppresso
e la metà corrispondente all'aula fedeli trasformata in casa coadiutorale.
In tal modo, furono occultati e danneggiati alcuni cicli di affreschi presenti
sulle pareti laterali dell'aula fedeli e sopra l'arco trionfale.
I lavori risparmiarono la cappella maggiore che, nel 1894, fu riaperta al
culto sotto il titolo di S. Luigi. Purtroppo, fu questa l'occasione per
maldestri adattamenti, tra cui lo scialbo di tutte le pareti del presbiterio
sulle quali si erano sino ad allora conservati estese porzioni dei cicli
affrescati cinquecenteschi.
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Le vetrate dei f.lli Villa
Giuseppe Villa insieme
al fratello Filippo sono gli autori delle vetrate che decorano la chiesa
parrocchiale di Porto, commissionate dall'allora parroco don Carlo Rimoldi
in occasione di periodici lavori all'interno della chiesa, fino al rifacimento
del presbiterio, negli anni '80.
Originari di Buscate (Milano) discendono da una famiglia che conta ormai
cinque generazioni di artisti.
Dopo la morte di Giuseppe, il laboratorio d'arte è gestito dal fratello
Filippo, pittore, scultore, restauratore, mastro vetraio, che opera da oltre
sessantanni. Diplomato allAccademia di Brera a pieni voti e
con medaglia dargento, ha svolto per diverso tempo attività
dapprima col padre e quindi con il fratello, collaborando al restauro, alla
decorazione, alla realizzazione di vetrate ed altre opere per chiese della
Brianza, della Valtravaglia, di altre zone della Lombardia e di vari centri
della Sicilia, soprattutto a Messina e provincia. Insieme al fratello Giuseppe
è caposcuola di una sua particolare forma di arte figurativa.
Non ha mai peraltro trascurato la pittura, realizzando nel tempo opere ispirate
a svariate tematiche, sociali, storiche, letterarie, oltre a ritratti, figure
e temi sacri.
Operando con coerenza un progressivo rinnovamento stilistico, dalliniziale
modello rappresentativo ad una sempre più moderna concezione figurale,
la pittura di Filippo Villa ha acquisito una carica espressiva in cui la
dimensione grafica e coloristica interpreta con vigore i soggetti, affrontando
con notevole spessore comunicativo le tematiche prescelte. Pur rimanendo
legato in qualche modo a una visione figurativa, lartista ha avvertito
lesigenza di dar vita alle proprie emozioni attraverso un nuovo linguaggio,
nel quale spesso segni liberi e linee orientale si sovrappongono allimmagine,
scomponendola in piani densi di colore.
Questa scelta grafica accentua la carica emozionale del dipinto, introducendo
un ritmo imprevisto, un dinamico alternarsi di luci, piani, tracce di un
disegno incisivo nel suggerire i volumi e le ombre; mentre il colore, dalle
tonalità brillanti, appare luminoso, vibrato, con una valenza comunicativa
che va oltre la dimensione naturalistica.
La rappresentazione del soggetto si fa così sempre appassionata,
realizzando in una pregevole sintesi pittorica un equilibrio espressivo
che coniuga sentimenti, sensazioni, emozioni, tematiche sociali o spirituali,
lasciando affiorare il senso del ricordo, di suggestive memorie ricche di
valori e spunti di riflessione.
(dal sito web di Giuseppe Villa)
Nella chiesa di Porto troviamo le vetrate dei fratelli Villa con i seguenti soggetti:
Sant'Ambrogio e San Massimo (nell'abside), la Deposizione dalla Croce
(cappella laterale sinistra);l'incoronazione della Madonna, l'Annunciazione
e la Pentecoste sulla parete di destra), (la Deposizione dalla Croce, cappella
laterale sinistra)
Arturo Galli, «pittore del sacro» a Domo
I restauri interni
della chiesa di Domo, ultimati nel 2012, hanno ridato ampio risalto a due
grandi affreschi posti sulle pareti laterali dell'edificio, a metà
navata, uno di fronte all'altro. Raffigurano rispettivamente la Natività
di Gesù e san Giovanni Bosco con Maria Ausiliatrice. Erano stati
fatti realizzare dall'allora parroco don Carlo Agazzi Rota in occasione
di un vasto restauro interno della chiesa iniziato nel 1943 e culminato
con la consacrazione della chiesa stessa ad opera del card. Schuster il
12 agosto 1947 come ricorda una lapide sulla controfacciata interna, il
cui testo è stato da lui stesso dettato a perpetua memoria.
La sola pulizia delle due opere ha conferito loro una luminosità
che fa quasi "leggere" all'osservatore attento la vitalità
degli affreschi. In un angolo, il nome dell'artista Arturo Galli, definito
con altri come un dimenticato pittore del sacro, morto nel 1963.
«I dimenticati pittori del sacro». Così un acuto storico
dellarte come Giorgio Mascherpa già trentanni fa aveva
definito quel folto e variegato gruppo di artisti italiani che nella prima
metà del ventesimo secolo si era dedicato prevalentemente a tematiche
religiose, dentro e fuori le chiese del nostro Paese, e che anche solo per
questo, al di là dei meriti personali, per modestia propria o per
snobbismo altrui, era stato confinato in una sorta di impenetrabile cono
dombra. Dimenticati, sì. Emarginati, perfino, dal gran mondo
dellarte, come artigiani di seconda classe, come decoratori di basso
livello...
La storia di Arturo Galli, da questo punto di vista, pare emblematica. E
ricordarla oggi, pare come una sorta di tardivo ma doveroso omaggio al genio
e alla dedizione non solo di questo infaticabile e sensibile pittore milanese,
ma anche di tutti quegli artisti sbrigativamente considerati minori,
ma che, come lui, hanno generosamente consacrato la loro carriera, e la
loro stessa vita, a unarte che fosse davvero al servizio della fede
e della Chiesa. Con onestà intellettuale e bravura tecnica, con umana
passione e spirituale devozione.
Ancora oggi oltre cinquanta sacri edifici in tutta la diocesi portano il
segno dellarte del Galli, dal cuore di Milano al varesotto, dal lecchese
alla cintura metropolitana: chi interi e vasti cicli di affreschi, chi vetrate
multicolori, chi ancora pale daltare o semplici quadri con figure
di santi, quasi una sorta di moderni ex voto. Eppure pochi, probabilmente,
ricordano il nome del loro autore, e ancor meno ne conoscono la figura e
il suo intenso operato.
Arturo Galli era nato a Milano, nellultimo scorcio del diciannovesimo
secolo. I primi rudimenti della pittura li ebbe in famiglia, per poi frequentare
lallora prestigiosa Scuola darte del Castello Sforzesco e i
corsi dellAccademia di Brera. Era bravo, il giovane Arturo. Un talento
naturale per il disegno dal vero, per il ritratto, per la figura.
Tanto da conseguire rapidamente labilitazione allinsegnamento.
E tentare, a neppure ventanni, la dura competizione dei concorsi e
dei premi. Ma le sue opere, pur assai lodate (come leggiamo nelle cronache
dellepoca), non ottennero i riconoscimenti sperati, provocando forse
in lui quella delusione e quellamarezza che lo portarono ben presto
ad abbandonare il pubblico dei saloni e delle mostre, per concentrarsi su
una pittura più intima e meditata.
Di carattere schivo e riservato, animato da una fede sincera, Galli dovette
intuire allora quale fosse la sua vera strada al servizio dellarte
sacra, stimolato e confortato anche dal sostegno di alcune significative
personalità religiose come, ad esempio, monsignor Buttafava, allepoca
canonico del Duomo di Milano.
La prima commissione di rilievo lebbe nel 1926, per la parrocchiale
di Paderno Dugnano, oggi purtroppo distrutta. Con quel grandioso lavoro,
Arturo Galli dimostrò una tale padronanza dellantica tecnica
dellaffresco e una tale abilità interpretativa e compositiva
da assicurarsi lammirazione di molti in campo ecclesiastico, e non
solo, tanto da iniziare, dopo di allora, unattività pluridecennale
a dir poco frenetica, con richieste da ogni parte in terra di Lombardia.
Proprio le continue richieste, del resto, che a volte andarono accavallandosi
in diversi cantieri aperti contemporaneamente, possono spiegare talora una
pittura un po manierata e ripetitiva. Pittura, tuttavia, che là
dove è riuscita a dare il meglio di sé si dimostra ariosa
e solenne, michelangiolesca nellispirazione e neorinascimentale nellimpostazione,
quasi nella ripresa di quelle stesse indicazioni accademiche suggerite agli
inizi del Seicento dal cardinale Federico Borromeo per unarte veramente
pia. E che gli valsero il plauso dello stesso cardinal Schuster.
Che poi quella di Arturo Galli fosse una scelta ragionata e non una carenza
di aggiornamento culturale, lo rivelano i molti bozzetti e schizzi del maestro
giunti fino a noi, dove il segno vivace e il tocco brioso dimostrano la
consapevolezza di appartenere al proprio tempo e la conoscenza della modernità.
Che Galli non volle ripudiare, ma in qualche modo trasfigurare nelle sue
opere in una ricerca di eternità.
Luca FRIGERIO su Avvenire del 3 marzo 2013
S. Pietro da Verona
Chi frequenta la chiesa della frazione di Musadino, intitolata anticamente a s. Pietro martire, poi successivamente alla Madonna di Lourdes, avrà anche notato che a sinistra dell'altare campeggia un affresco di autore ignoto che raffigura un monaco che regge la palma del martirio e ha un grosso coltello nella testa. E' un'immagine popolare di s. Pietro martire.
Ma chi era costui?
Nacque a Verona alla
fine del sec. XII in una famiglia eretica, ma già ragazzino si oppose
ai suoi parenti. Continuò gli studi allUniversità di
Bologna dove poi entrò nellOrdine Domenicano, quando s. Domenico
era ancora in vita.
Notizie storiche lo citano come grande partecipe nella fondazione delle
Società della Fede e delle Confraternite Mariane a Milano, Firenze
ed a Perugia; queste istituzioni a difesa della dottrina cristiana sorsero
poi presso molti conventi domenicani; questo fra il 1232 e 1234.
Dal 1236 lo si incontra in tutte le città centro-settentrionali dItalia
come grande predicatore contro leresia dualistica, ma Milano fu il
campo principale del suo apostolato, le sue prediche e le sue pubbliche
dispute con gli eretici, erano accompagnate da miracoli e profezie così
molti ritornavano alla vera fede del Vangelo. Il papa Innocenzo IV nel 1251
lo nominò inquisitore per le città di Milano e Como. La lotta
fu dura perché leresia era molto diffusa e nella domenica delle
Palme 24 marzo 1252 durante una predica egli predisse la sua morte per mano
degli eretici che tramavano contro di lui, assicurando i fedeli che li avrebbe
combattuto più da morto che da vivo.
I capi delle sette delle città di Milano, Bergamo, Lodi e Pavia,
che per brevità non riportiamo i nomi, assunsero come esecutori,
i killer di allora, Pietro da Balsamo detto Carino e Albertino Porro di
Lentate. Essi prepararono un agguato vicino a Meda dove Pietro, Domenico
e altri due domenicani, nel loro tragitto da Como a Milano il 6 aprile 1252
si erano fermati a colazione prima di proseguire per la loro strada.
Albertino ricredendosi abbandonò lopera e fu il solo Carino
che con un "falcastro", tipo di falce, spaccò la testa
di Pietro, immergendogli anche un lungo coltello nel petto, laltro
confratello Domenico ebbe parecchie ferite mortali che lo portarono alla
morte sei giorni dopo nel convento delle Benedettine di Meda. Il corpo di
Pietro fu trasportato subito a Milano dove ebbe esequie trionfali e fu sepolto
nel cimitero dei Martiri, vicino al convento di s. Eustorgio. In quello
stesso giorno si diffondevano notizie di miracoli. Tra queste grazie, bisogna
annoverare la conversione del vescovo eretico Daniele da Giussano che aveva
macchinato la sua morte e dello stesso assassino Carino che entrarono poi
nellOrdine Domenicano.
Il grande clamore suscitato dalluccisione ed i tanti prodigi che avvenivano
fecero si che da tutte le parti si chiedesse un innalzamento agli altari
del martire. Undici mesi dopo, il papa Innocenzo IV il 9 marzo 1253, nella
piazza della chiesa domenicana di Perugia, lo canonizzò fissando
la data della festa al 29 aprile.
Il suo culto ebbe grande espansione, i domenicani eressero chiese e cappelle
a lui dedicate in tutto il mondo, le Confraternite ebbero in ciò
unimportanza notevole. E raffigurato con la tonaca domenicana,
con la palma del martirio, con la ferita sanguinante dalla fronte al capo,
oppure con una roncola che penetra nel cranio, con il pugnale infitto al
petto o ai fianchi, secondo lestro dellartista.
E uno dei santi più raffigurati, quasi tutti gli artisti si
cimentarono a dipingerlo dal 1253 in poi, visto la grande diffusione che
aveva lOrdine Domenicano sia in chiese, che conventi, congregazioni,
ecc. La sua data di culto è il 6 aprile, mentre l'Ordine Domenicano
lo ricorda il 4 giugno.
la Cappella "Porta"
E' notizia inedita quella che consente di identificare nella parrocchiale
di Porto Valtravaglia una cappella costruita dalla famiglia Porta, forse
in origine dedicata a mausoleo famigliare. Nonostante devozione ed elargizioni,
dispensate quasi senza soluzione di continuità dal Cinquecento al
Settecento, il tempo ha cancellato dalla memoria collettiva il nome della
famiglia donatrice. Se la rotazione delle intitolazioni degli altari laterali
ha stravolto la primitiva dedicazione a S. Michele Arcangelo, la sovrapposizione
di lasciti di altre famiglie, raccolte nella confraternita del Rosario accreditata
presso la medesima cappella, rende difficile districare il meccanismo di
prodigalità che ha consentito di affrescarne la volta con una bella
scena di angeli musicanti incentrata sulla colomba dello Spirito Santo,
principale tra le "opere d'arte" accumulate nella quasi millenaria
vicenda della chiesa di S. Maria Assunta.
Appare, invece, chiaro che l'idea e le prime sostanziali donazioni a favore
della creazione di una cappella si devono alla figura del capostipite famigliare,
Giroldino I, a partire dal 1520, quando aveva vincolato gli eredi e la moglie
a costruire in sua memoria un altare nella chiesa di Porto
Nel 1569, durante una visita del delegato del cardinale Borromeo, si verificava
che l'antico invaso della chiesa - risalente almeno al XIII sec., era già
scandito in tre navate, che l'abside era stata recentemente ampliata: lavori
di ammodernamento, dunque, stavano interessando in quegli anni la parrocchiale,
a partire dall'altare maggiore e dalle navate laterali.
Il cantiere in corso era patrocinato per buona parte da lasciti e legati,
fra questi quello dei Porta, proprio nella navatella nord (a sinistra dell'ingresso,
rivolta verso il lago).
La cappella Porta, dunque, corrispondeva al luogo dove ora è collocato
(dal 1770 ca.) l'altare del Rosario (o della Madonna). Si tratta di un ambiente
dalle caratteristiche autonome, strutturali e decorative, rispetto alla
rimante parte della chiesa: differente è la volta a vela, sostenuta
e intersecata da due lunette sorgenti dai lati maggiori, differente è
l'apparato decorativo.
Le visite pastorali che si susseguirono nei secoli non menzionarono il ricco
rivestimento pittorico, con scene di angeli musicanti discendenti dalla
colomba dello Spirito Santo. L'opera va quasi certamente ascritta alla prima
metà del Seicento, per caratteri stilistici e tecnica esecutiva.
(ndr- L'opera venne poi attribuita dalla Soprintendenza alla bottega degli
Avogadro).
Il beneficio inaugurato da Giroldino I perdurò ancora sino agli ultimi
decenni del XVIII sec., quando il rilancio della tradizione di famiglia,
per merito dei discendenti settecenteschi del capostipite, divenne funzionale
al raggiungimento dei titoli di nobiltà.
Ciononostante, e a scapito di qualche discontinuità, il legame della
famiglia
Porta con la chiesa del borgo fu sempre sentito.
Non è escluso che un attento lavoro di analisi, documentale e materica,
saggi stratigrafici oculati e una generale campagna di restauro della cappella
in particolare urgente per gli affreschi nella cupola, possano restituire
indizi e tracce di un primitivo sistema decorativo, sfuggito ai documenti
e alle visite pastorali, utile ad inquadrare le vicende della ramificata
famiglia Porta.
Ancorché svanita, anche nella memoria dei discendenti ottocenteschi
della famiglia, l'originaria destinazione della cappella, la sentita dedizione
dei Porta verso la chiesa parrocchiale, cuore spirituale attorno cui si
è imperniata per secoli la vita del paese, non venne meno, neppure
nell'Ottocento, e continua fino ai giorni nostri.
IL CONCERTO DEGLI ANGELI
Attribuito dalla Soprintendenza alla bottega degli Avogadro (o " de
Advocatis"), dovrebbe risalire al secondo, terzo decennio del XVII
secolo, quindi attorno al 1620-1630.
Nello stesso periodo, precisamente nel 1612 Johannes Baptiste de Advocatis
(pittore milanese attivo nella provincia di Varese nei primi anni del "600)
autore di una pala d'altare e di alcuni affreschi in S. Caterina del Sasso
a Leggiuno, mentre nella chiesa di s. Stefano a Mombello ha lasciato la
sua opera maggiore.
Qui ha affrescato la volta dell'abside con la "gloria della Madonna
assunta in cielo" al centro di un concerto angelico, molto simile a
quello in corso di restauro nella parrocchiale di Porto. Purtroppo non sono
emersi testi o date utili ad attribuire definitivamente l'opera e la sua
epoca di esecuzione, salvo la dedicazione a Maria sorretta da un paffuto
angioletto propria sopra l'altare della Madonna.
(da una ricerca di Federico Crimi 2010)
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Gugliemo da Montegrino
Molti fra coloro che sono saliti all'alpe San Michele ed hanno visitato la chiesetta, avranno notato sotto il grande affresco della Madonna con Santi, un cartiglio parzialmente leggibile nel quale è scritto in caratteri medioevali la firma dell'autore: ... il giorno 21 agosto Guglielmo da Montegrino dipinse - (Michele o Angelo) da Ligurno fece fare quest'opera.
Tracciamo qui una breve storia di questo artista.
Guglielmo da Montegrino fu un pittore attivo tra la fine del XV e l'inizio
del XVI secolo.
A lui si devono con certezza alcune opere (tra le quali, nel nostro territorio,
la Madonna della chiesa di Ligurno e la Madonna con santi nella chiesa di
S. Michele) mentre per altre ci sono problemi di attribuzione. Sembra che
l'artista montegrinese abbia lavorato nella collegiata di San Vittore di
Brezzo di Bedero, mentre è certo che egli dipinse gli affreschi della
chiesa, oggi scomparsa, di S. Donnino a Roggiano (la studiosa Janice Shell
ha ritrovato il contratto del 1520 con cui Guglielmo da Montegrino
si impegnava in tal senso con i committenti del lavoro). A Montegrino Valtravaglia
dipinse l'affresco raffigurante S. Bernardino nella parete settentrionale
della chiesa di S. Martino, datato 1488.
Anche l'abside della chiesa di Santo Stefano a Domo, nella raffigurazione
della grande crocifissione, ricorda la mano di Guglielmo nel dipingere personaggi
e animali. L'artista esprime nelle sue opere, soprattutto nella raffigurazione
dei volti, una vena espressionistica, che spesso sfiora il grottesco, facilmente
riconoscibile; il suo stile si caratterizza anche per una gamma cromatica
che predilige i colori forti, accostati per contrasto. Il linguaggio delle
immagini è sempre aspro e grafico, sottolineando con insistenza particolari
di corpi e volti. Guglielmo da Montegrino, insomma, coniuga nella propria
arte elementi di tradizione con influenze espressionistiche di gusto nordico
e non rifiuta dei tocchi popolareschi. Sua caratteristica è
la presenza della parola all'interno dell'immagine, sotto forma di cartigli
e didascalie di vario genere, in latino e in grafia gotica. La sua consuetudine
di datare e firmare le proprie opere lo distingue dalla schiera dei pittori
anonimi del suo tempo e testimonia anche la fama di cui dovette godere in
vita.
Galdino della Sala
Ricordando la consacrazione della chiesa di Domo da parte del Card. Schuster avvenuta proprio il 12 agosto di settantanni fa e il fatto che volle racchiudere nella mensa dellaltare fra altre reliquie di martiri anche quella di San Galdino, abbiamo voluto tracciare una breve storia di questo santo Arcivescovo di Milano, molto legato alla Valtravaglia.
Galdino della Sala, detto anche semplicemente San Galdino è stato
un vescovo milanese, venerato come santo dalla Chiesa cattolica.
Fu un fervido sostenitore sia di papa Alessandro III, sia della popolazione
milanese, nelle loro rispettive lotte parallele contro l'imperatore Federico
Barbarossa. È ricordato in special modo per le sue opere caritatevoli
a Milano, rivolte nello specifico ai poveri e a quanti erano finiti in prigione
per debiti non saldati.
Galdino nacque a Milano nell'ultima parte dell'XI secolo o nei primi anni
del XII; una data che ci viene indicata dalle cronache è quella del
1096, che ad oggi rimane comunque discussa. San Galdino era un membro della
famiglia della Sala, di rango della bassa nobiltà cittadina.
Lo troviamo citato in molti atti dell'epoca riguardanti la Valtravaglia,
tanto da far supporre che fosse originario di Bedero, dove - tra Ticinallo
e Brezzo - esiste ancora una località detta della "sala".
Nel 1137 è senz'altro presente in Valtravaglia in occasione della
visita dell'arcivescovo di Milano Robaldo, e lo troviamo fra i firmatari
del famoso "privilegio" con il quale l'arcivescovo consente il
trasferimento della sede della pieve da Domo a Bedero. Da quel documento
(il cui originale è presso l'Archivio Storico Diocesano) sappiamo
del primo preposto di cui è noto il nome: Guglielmo.
Nel 1149 Galdino riassumeva nella sua persona la doppia carica di Cancelliere
e Arcidiacono, tanta era la fiducia che godeva da parte del suo Vescovo
Robaldo e poi del suo successore Oberto da Pirovano.
Appoggiò fortemente la curia romana al momento dello scisma che avvenne
nel 1159 dopo la morte del papa Adriano IV. Papa Alessandro III era il candidato
promosso dalla Santa Sede, mentre l'antipapa Vittore IV era sostenuto da
Federico Barbarossa e dai suoi cardinali. La Chiesa milanese sosteneva Alessandro
III e Galdino stesso, come arcidiacono della cattedrale, prese posizione
pubblicamente. Federico assediò Milano e lo imprigionò per
sei mesi. Galdino incontrò quindi Alessandro III a Genova e lo seguì
in un suo viaggio a Maguelonne, Montpellier, giungendo sino a Clermont.
Successivamente seguì ancora il Pontefice in Sicilia e quindi
a Roma dalla quale tornò nel 1165. Quando Alessandro III tornò
alla guida della Chiesa nel 1165, egli nominò Galdino cardinale di
Santa Romana Chiesa con il titolo di Santa Sabina, e l'anno successivo lo
nominò arcivescovo di Milano. L'anno successivo, Alessandro III nominò
Galdino quale suo Legato Apostolico in Lombardia.
Quando la Lega Lombarda espulse il Barbarossa dai confini milanesi, Galdino
prese possesso ufficialmente della propria sede, deponendo ogni sacerdote
lombardo nominato dall'antipapa Vittore IV. Egli consacrò nuovi vescovi
a Lodi, Alba, Cremona, Vercelli, Asti, Torino, Novara, Brescia e Alessandria.
Di Galdino si ricorda l'impegno per l'opera di ricostruzione dei Milano
dopo la sua distruzione ad opera del Barbarossa e la sua attività
a favore dei poveri, ricordata con l'epiteto di "pane di San Galdino"
che era usato a Milano per il pane distribuito ai poveri e ai carcerati
e forse è per questo motivo che Alessandro Manzoni chiamerà
Galdino il personaggio del frate questuante per i poveri nei Promessi Sposi.
Il 18 aprile 1176, Galdino della Sala morì sul pulpito della chiesa
di Santa Tecla a Milano, da dove stava terminando un sermone contro gli
eretici Catari.
Vverrà nominato santo dallo stesso papa Alessandro III.
È sepolto nel Duomo di Milano, nell'altare della Madonna dell'Albero
nel Transetto sinistro.
La Pieve di Travaglia
La pieve è un ambito territoriale che comprende varie comunità
civiche ed ecclesiali, comuni e parrocchie. Alla fine del IV secolo, durante
l'episcopato di Ambrogio, nella città di Milano la comunità
cristiana era ben organizzata ed era provvista di altre chiese oltre la
cattedrale. La campagna era invece ancora in gran parte idolatra e pagana.
Verso la fine del V secolo, il cristianesimo riuscì ad affermarsi
ovunque, anche nei territori rurali nei quali sorsero le chiese battesimali
o matrici, che divennero, cioè, madri delle chiese che furono edificate
nel territorio. Sono queste le chiese che si chiamarono plebane, mentre
l'ambito della loro giurisdizione venne detto pieve.
La pieve si impiantò in un preesistente distretto amministrativo
o militare di notevole importanza sociale o bellica, o nel pagus di origine
celtica, o nelle stationes o nei castri di origine romana. Come la diocesi
stabilì la sua circoscrizione giuridica sopra una già esistente
circoscrizione civile, così la pieve abbracciò il territorio
di un antico pagus che veniva a comprendere un certo numero di vici o di
castra. Se si vuole tentare di stabilire una cronologia nella nascita delle
"chiese battesimali" (termine più corretto, in luogo di
pieve che entrò in uso solo con l'VIII-IX secolo), alcuni studiosi
ragionevolmente ritengono che quelle dedicate a san Vittore possano risalire
alla fine del IV secolo; alla metà del V quelle dedicate a santo
Stefano; seguono quelle dedicate ai vari martiri, a san Pietro e, verso
il periodo carolingio, alla Madonna. Gli edifici caratteristici delle sedi
plebane sono la chiesa ed il battistero, dedicato a san Giovanni Battista,
ma queste ipotesi non sono tutte suffragate da prove certe.
La pieve rimase l'unica parrocchia di tutto il territorio plebano fino al
XII secolo, quando, in seguito al sorgere dei comuni rurali, la chiesa delle
singole comunità civiche inizia a prendere autonomia e nacquero le
parrocchie.
In questo ampio contesto storico - religioso, c'è la Pieve di Travaglia,
con il suo monumento religioso certamente databile all'Alto Medioevo: il
Battistero di Domo, che pur tuttavia non può essere assegnato ad
epoca anteriore al X secolo, inserito nel complesso religioso comprendente
la chiesa di S. Maria e la chiesa "iemale" di S. Stefano. Se dal
XII secolo in poi la situazione è chiara: la sede plebana era posta
in Bedero, dove ancora si conserva la "canonica" di S. Vittore,
le età precedenti sono avvolte nel mistero. Dello spostamento della
chiesa battesimale da Domo a Bedero possediamo l'atto autentico con cui
l'arcivescovo Robaldo nel 1137, constatate le condizioni di abbandono in
cui versava la precedente matrice, ne ordinava lo spostamento sul monte
di Bedero. Nelle carte superstiti nel XIII-XIV secolo si riscontra ad un
prevalere iniziale del titolo dedicatorio di S. Maria (che è ancora
la dedicazione della chiesa di Domo), una fase di titoli associati (S. Maria
e S. Vittore), per lasciare infine il posto a quest'ultimo, cui è
dedicata la Canonica di Bedero.
Si può anche pensare che il nucleo originario di Domo sia derivato
dall'aggregarsi di una piccola comunità attorno alla chiesa battesimale,
a scopo di protezione e di servizio. L'origine delle prerogative plebane
potrebbe allora ricondursi all'età di Berengario, in coincidenza
con le fortune della vicina rocca di Travaglia (Caldè) e in accordo
con la datazione del battistero. A simbolo di questa preminenza resta la
mole del campanile di Domo.
Lo schizzo primitivo che è contenuto negli atti delle visite pastorali della diocesi di Milano conservati presso la Biblioteca Ambrosiana nel volume "Bedero - 1 - 1547 - 1575" raffigura il territorio della pieve facente capo, dal 1137, appunto a Bedero. Risale agli anni 1570. E' questa la raffigurazione più antica della zona, sinora nota, e delinea i confini della pieve nella seconda metà del cinquecento.
La Visita dell'arcivescovo Robaldo
Era il 4 marzo 1137. E' certamente la più antica visita pastorale in Valtravaglia, documentata da una pergamena conservata nell'Archivio della Curia di Milano, proveniente dall'archivio parrocchiale di Bedero ove rimase fino alla fine del XVI sec. quando fu consegnata al cancelliere arcivescovile can. Maggiolini. Ne esistono alcune copie cartacee, una delle quali nell'archivio parrocchiale di Domo controllata dal parroco di Castello Valtravaglia, Giovanni Andrea Binda, sull'originale.
A seguito di questa visita pastorale, l'arcivescovo Robaldo stabiliva il
trasferimento della sede della pieve di Travaglia da Domo a Bedero.
Anche se non è del tutto sciolta la controversia storica sul vero
significato del documento (trasferimento della pieve da Domo a Bedero, oppure
ricostruzione della pieve a Bedero su un precedente tempio cristiano o pagano)
diamo qui una traduzione libera del Privilegio di Robaldo nei suoi passi
principali:
"Robaldo, per grazia di Dio arcivescovo della santa chiesa milanese
a Guilielmo preposto della pieve di Travaglia e ai suoi fratelli, in perpetuo"
"... pertanto noi, cui spetta provvedere per l'incarico ricevuto alle
necessità ed alle utilità delle chiese, dopo molte ed innumerevoli
suppliche del predetto preposto e dei suoi fratelli ..."
"... fermamente stabiliamo che la predetta pieve di Travaglia venga
trapiantata sul monte di Bedero che è di diritto e di proprietà
del beato Ambrogio ..."
" ... la predetta chiesa era stata abbandonata da quasi tutti i suoi
parrocchiani, sia perchè difficile ne era l'accesso, come odiosa
e derelitta ai propri figli quasi era stata privata dei diritti spirituali
e, mentre per troppa vetustà minacciava ruina, veniva a mancare del
tutto l'opportunità di ricostruirla ..."
" ... a maggior gloria ed utilità della santa chiesa milanese
e del beato Ambrogio ... dal predetto preposto e da tutti i suoi fratelli
riceviamo questa fedeltà ..."
" ... io Guilielmo da questo momento sarò fedele ed obbediente
all'arcivescovo di Milano Robaldo ed ai suoi successori ... non commetterò
atti che possano far perdere alla chiesa pieve di Travaglia l'onore spirituale
o temporale ..."
" ... tutto ciò senza imbroglio osserverò; mi aiuti Dio
e questi santi vangeli"
"l'anno dell'incarnazione del Signore 1137, ... il 4 marzo".
Il documento evidenzia come il Vescovo agiva nei confronti del preposto
di Travaglia come di un proprio fedele in senso feudale; ed il giuramento
che ne otteneva è quello stesso di un vassallo al suo "dominus".
Dal testo è dato comunque di cogliere anche le esigenze dei fedeli,
visto che il Vescovo volle o dovette tener conto della protesta popolare
per la scomoda posizione di S. Maria a Domo, troppo distante dalle valli
settentrionali della pieve. Fu certo sentita la necessità di garantire
il battesimo agli infanti; di disporre di un luogo consacrato per la sepoltura
dei morti e finalmente di fruire di un culto comodo e regolare, per fugare
le numerose proteste per inadempienze e tiepidezza dei canonici nel servizio
delle chiese periferiche.
Occorre qui fare una parentesi e dedicare un po' di spazio a un dotto e
attento studioso delle cose di Valtravaglia: Giovanni Andrea Binda, parroco
di S. Pietro di Castello (oggi Castelveccana) dal novembre 1829. Nato nel
1803 a Rezzago in Valassina, morì settantenne il 3 giugno 1874. L'archivio
della sua parrocchiale poco conserva di lui; un discreto mazzo di note e
di appunti è invece conservato presso l'Archivio Parrocchiale di
Domo e come siano finiti lì è facile intendere. Anche Francesco
Cristini, parroco a Domo dal 1897 al 1908, coltivò interessi storici
e verosimilmente fu lui a procurarsi quegli scritti, conservandoli con ogni
cura. Il Binda resta comunque colui che setacciò, ai suoi tempi ancora
integri, l'archivio capitolare di Valtravaglia e della pretura di Luino,
prima che svanissero nel nulla. Anche le raccolte milanesi furono setacciate
ed ora, quegli appunti, sono fra le più antiche testimonianze dei
nostri luoghi e della nostra gente.
Dedicazione e storia della chiesa di Porto
L'antica
chiesa era in stile romanico, ad una sola navata, risalente al 1000-1100.
Misurava circa metri 12,50 in lunghezza, 5,30 in larghezza, 7 in altezza.
Le attuali navate laterali sono state aggiunte, sfondando le pareti laterali
della chiesa e ricavando gli archi ed i grossi pilastri attuali. La chiesa
è stata allungata e la facciata attuale risale al 1400, come lo potrebbe
dimostrare l'affresco votivo dedicato a s. Rocco dipinto sul lato interno
della facciata e datato 1524. Durante i lavori di sistemazione esterna del
1979 è stata scoperto un graffito sulla facciata esterna "IHS
1664".
L'affresco di s. Rocco venne fatto "devotamente eseguire da Bernardino
e Giovanni, vera discendenza di Minetti Erminio" nel 1524. Lo stile
è della scuola del Borgognone.
Durante i lavori di posa nel nuovo altare nel 1978 venne alla luce l'antica
abside circolare, pavimentata in beola e le fondamenta del muro perimetrale.
L'altare originario della chiesa era interamente in legno scolpito e adorno
di statuette di angeli e santi. Al centro aveva un tempietto di quattro
colonne ritorte e adornate da rami di foglie; al centro campeggiava una
Madonna Assunta ed ai lati due angeli con cornucopie che sorreggevano un
cero.
La prima ed unica dedicazione della chiesa avvenne il 21 luglio 1581 per
opera di s. Carlo Borromeo, racchiudendo nell'altare le reliquie di s. Massimo
Martire.
Successivamente lo stesso altare fu riconsacrato dal card. Schuster il 24
novembre 1930 e le stesse reliquie furono riposte unitamente al cartiglio
originale scritto di pugno da s. Carlo e riscritto al retro dal card. Schuster.
Negli anni 1924-25 la chiesa su oggetto di vari interventi, fra i quali
l'innalzamento del campanile di un piano, un radicale restauro interno ed
esterno, la realizzazione della attuale piazza mediante sterro del piazzale
che a quel tempo era a livello della via Roma e che arrivava a pochi metri
dalla chiesa. Le tre campane erano state fuse nel 1834: "Michael Comerius
fecit" è impresso nel bronzo di ciascuna unitamente alle rispettive
dediche:
campana maggiore: a fulgora e tempestate libera nos Domine
campana mezzana: ad maiorem Dei gloriam
campana minore: sit nomen Domini benedictum
L'organo è stato costruito nel 1868 Giovanni Mentasti in società
con Pietro Talamona.
Si realizzò anche la scala in granito al centro della piazza e si
tolse la scala della facciata, realizzando invece l'attuale terrapieno.
I lavori terminarono a Natale del 1926.
La Via Crucis in bronzo è stata realizzata negli anni '50, dono della
famiglia Lucchini.
Le balaustre originarie vennero tolte nel 1972 e nello stesso anno vennero
motorizzate le campane.
Il nuovo altare della chiesa, quello attuale, venne realizzato in occasione
del XXV di ordinazione del parroco don Carlo Rimoldi e fu consacrato dal
mons. Bernardo Citterio il 14 agosto 1978. Nel sepolcreto furono poste le
reliquie dei santi Massimo, Protaso e Gervaso, Maria Goretti, Ambrogio e
Carlo e Domenico Savio. La mensa in marmo bianco consacrata da s. Carlo
e riconsacrata dal card. Schuster (e recante l'iscrizione della sua seconda
consacrazione) venne inglobata nell'altare maggiore ed è visibile
per una sua completa lettura. Con l'occasione venne recuperato il cartiglio
originale scritto da s. Carlo e integrato dal card. Schuster e riposto in
un artistico reliquiario.
Il 5 luglio 1981 il card. Giovanni Colombo incoronò la nuova statua
in legno della Madonna Assunta.
Negli anni '80 vennero anche realizzate le diverse vetrate artistiche realizzate
dai Fratelli Villa di Buscate.
Dopo il rifacimento del tetto, sotto il parroco don Walter Casola, nel 2012-2014
è stata eseguita una serie di imponenti restauri: la ritinteggiatura
esterna del campanile e delle facciate; il completo rifacimento degli interni
e degli altari della Madonna e di S. Carlo riportati all'originario splendore.
E' stato rifatto l'impianto di illuminazione.
All'esterno, sopra una porta murata, è stato riportato alla luce
in una lunetta l'affresco di una Madonna Assunta. L'intervento più
significativo è stato il restauro degli affreschi di s. Rocco sulla
controfacciata e quello degli angeli musicanti nella Cappella della Madonna
(già Cappella Porta). Le opere sono state eseguite dal Laboratorio
San Gregorio di Busto Arsizio.
Attribuito dalla Soprintendenza alla bottega degli Avogadro (o " de
Advocatis"), l'affresco degli angeli dovrebbe risalire al secondo,
terzo decennio del XVII secolo, quindi attorno al 1620-1630. Nello stesso
periodo, precisamente nel 1612 Johannes Baptiste de Advocatis (pittore milanese
attivo nella provincia di Varese nei primi anni del '600) autore di una
pala d'altare e di alcuni affreschi in S. Caterina del Sasso a Leggiuno,
mentre nella chiesa di s. Stefano a Mombello ha lasciato la sua opera maggiore.
Qui ha affrescato la volta dell'abside con la "gloria della Madonna
Assunta in cielo" al centro di un concerto angelico, molto simile a
quello sito nella parrocchiale di Porto.
le consacrazioni della chiesa di Domo
La dedicazione è uno dei più antichi riti con il quale il
Vescovo consacra e dedica la chiesa a Dio e ad uno più santi patroni.
La cerimonia comprende vari momenti di altissimo significato simbolico:
il celebrante bussa alla porta della chiesa, vengono invocati i Santi, si
ungono con il sacro Crisma dodici croci, su altrettante colonne, a ricordo
dei dodici apostoli che sono il fondamento della Chiesa; si depongono all'interno
dell'altare le reliquie dei martiri, a ricordo che i primi altari erano
costruiti direttamente sulle tombe dei martiri; si ungono cinque croci agli
angoli ed al centro dell'altare, sopra si accendono altrettanti ceri, a
ricordo delle cinque piaghe del Signore morto in croce. Infine si asperge
la mensa, la si incensa, la si copre con le tovaglie ed si celebra la messa
della Dedicazione. San Carlo Borromeo ebbe molto a cuore la consacrazione
delle chiese e degli altari durante le sue numerosissime visite pastorali,
cogliendo tali occasioni per richiamare i fedeli alla pratica religiosa;
così fece il Card. Schuster, sulle orme dello stesso san Carlo. Entrambi
i vescovi, nelle rispettive visite in Valtravaglia, non mancarono di consacrare
altari e chiese.
Ricordiamo questo mese le date di consacrazione della chiesa e dell'altare di Domo.
Anzitutto il 23 aprile (di un anno imprecisato tra il V ed il X sec.)
che si dice "è festa di precetto, perché è il
principale giorno della consacrazione di questa chiesa" come risulta
dagli atti della Visita pastorale del card. Federigo Borromeo del 12 agosto
1596.
In una relazione del parroco Vagliani del 1685 si ha una descrizione di
come dovesse essere la chiesa alle origini. "Consiste la chiesa suddetta
in una sola nave assai vasta e sufficiente a capire da settecento in ottocento
persone, chè tanti sono i sudditi a detta Cura. Vien questa sostenuta
da tre archi tra quali v'à un soffitto legato in quadretti di tavole
lariche". Il presbiterio aveva la volta dipinta con le immagini dei
quattro Evangelisti e l'immagine di Dio Padre entro la mandorla mistica,
e le pareti laterali dipinte, la destra con l'immagine dell'Assunta, la
sinistra con vecchie pitture "la maggior parte delle quali è
stata rubbata dal tempo".
Queste le dimensioni interne della chiesa "antiquissima" di Domo:
lunghezza cubiti 38, larghezza 14, cioè mt. 16,70 x 6,20 circa; vi
si entrava scendendo tre gradini.
Poi abbiamo il 14 giugno 1583, data di consacrazione dell'altare da parte di S. Carlo Borromeo. L'arcivescovo, partito da Milano il 13 giugno, giunse - come consuetudine - alla sera a Domo e trovò che erano stati eseguiti i suoi decreti emanati nella precedente visita e che la chiesa ed il cimitero erano stati restaurati e rinnovati, come egli aveva desiderato. Il giorno seguente celebrò pertanto la messa di consacrazione dell'altare maggiore in onore della Beata Vergine e, dopo il canto del Vangelo, tenne al popolo un devoto sermone. Terminata la messa, uscì a benedire il cimitero.
Infine il 12 agosto 1947 è la data della consacrazione della chiesa
da parte del Card. Schuster, resasi necessaria a seguito degli imponenti
lavori di trasformazione che l'edificio aveva subito al tempo del parroco
Giovanni Battista Isabella, originario di Torre.
Fin dal 1788 gli amministratori invitarono infatti tali Francesco e Silvestro
Giorgetti a stendere una perizia sullo stato della chiesa e relativo preventivo
per il rifacimento e l'allargamento del tempio. Nella suddetta perizia si
legge: "Gli architravi erano spaccati ed aperti in diversi siti, l'architrave
maggiore del Sancta Sanctorum era stato ritrovato minacciante gravissima
ruina, anche la volta del Coro era qua e là screpolata e quasi cadente,
come pure le stesse muraglie; la navata era quasi staccata per numerose
fessure, il tetto una continua minaccia per il popolo in Chiesa radunato.
Infine la Chiesa era di molta angustiosità e non capace di contenere
tutto il popolo".
Per questo si decise di allargarla tenendo buone solo una parte delle antiche
pareti e di fare il soffitto in volta. La chiesa fu innalzata e si murarono
le finestre antiche aprendone altre al di sopra del cornicione. La somma
totale preventivata fu di lire venete 13.800. Nell'ampliamento fu incorporata
una parte del cimitero. I lavori durarono ben cinque anni e terminarono
nel 1795. Nel 1943 furono intrapresi i lavori di decorazione della chiesa,
che divenne come appare oggi.
Domo, i Perlo e S. Filippo
Pochi conoscono la
storia dell'Oratorio San Filippo, tutt'ora esistente a Domo - pur in cattive
condizioni - davanti alla vecchia casa parrocchiale e a fianco della chiesa.
La sua costruzione la si deve ad una famiglia di origine piemontese, i Perlo,
che è entrata nella storia della Valtravaglia ed il più noto
per noi fu Filippo che i nostri anziani ancora ricordano come " il
dottor Perlo".
Era nato a Caramagna il 19 marzo 1863, figlio di Bartolomeo e Fusero Agnese.
Il 12 aprile 1908 il consiglio comunale di Porto Valtravaglia lo nominava
medico condotto consorziale. Il fratello Enrico diventerà invece
un importante teologo.
Era risultato vincitore del concorso a suo tempo bandito per la copertura
del posto vacante. Il suo stipendio era inizialmente di Lire 3.000 annue,
che sarebbero poi diventate 9.000 nel 1925.
Risiedeva in piazza della chiesa a Domo, in quella che fu la chiesa di S.
Stefano e trasformata parzialmente in abitazione. Soleva muoversi a bordo
di un calesse trainato da un cavallo. Fu un personaggio assai stimato, un
medico dal grande cuore.
Domenica 21 e lunedì 22 novembre 1926 il "cav. uff. comm. Perlo
dott. Filippo" festeggiava le nozze d'argento con la moglie Rina Rombi.
Il settimanale "Corriere del Verbano" di quei giorni scrive: "I
generosi coniugi vollero prepararsi degnamente alla fausta ricorrenza offrendo
al R. Parroco locale la cospicua somma di L.30.000 lire per la costruzione
di un oratorio per la gioventù di Domo dedicato alla memoria del
loro defunto unico figlio Filippo". Seguirono i festeggiamenti per
la commenda concessa da Pio XI in nome di questa e altre benemerenze. Con
l'occasione ci fu l' inaugurazione dell'oratorio. Con l'occasione il dott.
Perlo festeggiava anche i suoi 20 anni di "lodevolissimo servizio sanitario".
Domenica 21 ci fu la s. messa celebrata dal prevosto di Bedero e predica
del prevosto Croci della parrocchia S. Gioachino di Milano. "Alle 15,41,
con diretto da Novara arrivò da Torino S.E. Mons. Perlo Filippo,
il Can. Bues (già parroco di Castagnole Piemonte e poi Canonico del
Duomo di Torino) ed il Rev. Teologo Enrico Perlo fratello dell'amatissimo
dottore". Era parroco di Domo don Enrico Longoni.
Il dott. Perlo sarebbe rimasto in servizio fino al maggio 1934, quando fu
colpito da anemia grave e dovette far ricorso a numerose trasfusioni. Il
suo medico curante era tale Vittorio Ronchetti, che relazionò alla
Giunta Comunale sulla necessità di un periodo di riposo per il collega
Filippo Perlo. Durante la malattia il dott. Perlo fu sostituito da Mauro
Napoletano e poi da Oreste De Prati.
Fu medico consorziale della Valtravaglia per 29 anni, fino alla morte avvenuta
a Domo il 23 giugno 1934. E' sepolto nel cimitero di Domo accanto alla moglie
Rina Rombi (S. Angelo Lodigiano 26.11.1879, Montevecchia 31.3.1941) e alla
sua fedele domestica Vittoria Fiorini (26.9.1908 - 1.8.1992).
La signora Rina ha lasciato poi in eredità alla parrocchia alcuni
gioielli in oro con il quale è stata realizzata gratuitamente dall'orafo
Vittorino Ongari una lunetta per trattenere l'ostia consacrata nell'ostensorio
solenne.
La famiglia Perlo non si esaurisce qui. Le ricerche d'archivio ci hanno fatto incontrare altri tre fratelli Perlo: Enrico, teologo, fratello del dottor Filippo, che venne a Domo per l'inaugurazione dell'Oratorio. Aveva celebrato la sua prima Messa a Caramagna il 2 luglio 1911. Lo ritroviamo poi a Filadelfia, negli Stati Uniti, quando celebra il suo giubileo sacerdotale il 20 settembre 1936 come Parroco della chiesa di s. Maria Maddalena de Pazzi.
Poi un altro Filippo, mons. Filippo Perlo (1873-1948) primo successore
del beato Giuseppe Allamano alla guida dell'Istituto dei missionari della
Consolata e vescovo in Kenya, e i suoi due fratelli Gabriele e Luigi, entrambi
missionari della Consolata.
Gabriele (1879 - 1948) diventerà vescovo missionario di Mogadiscio
in Somalia.
Tutti originari di Caramagna, riteniamo potessero essere cugini del nostro dott. Perlo.
Il calice datato 10.6.1911 dono del dott. Filippo Perlo e conservato a Domo
la chiesa della Madonna delle Cappelle
Davanti al cimitero di Porto sorge una piccola chiesa la cui originaria
denominazione era della "Madonna del fiume", titolo poi diventato
"della Madonna delle cappelle". Cerchiamo di ricostruirne la storia,
per quanto possibile.
Le origini della chiesa non sono note: dietro di essa scorre il torrente
Muceno e a fianco una passerella in legno ne permetteva il passaggio verso
le località di Roccolo, Nuvolina e Ticinallo. La strada Laveno-Porto-Luino
è stata realizzata solo negli anni '30.
Attorno era circondata da prati che digradavano verso il lago e la via Rivazzola
(l'attuale via Borgato).
Il titolo di "Madonna delle cappelle" risale alla prima metà
del 1700 quando i frati francescani ottennero dal papa Benedetto XIII (nel
1731) la facoltà di istituire e benedire le Via Crucis anche al di
fuori dei loro conventi e delle loro chiese. Non dimentichiamo che furono
proprio i frati francescani a diffondere prima il presepe, poi il pio esercizio
della Via Crucis. L'origine di questa seconda tradizione è dovuta
soprattutto ai francescani della Spagna, che diffusero anche la processione
del Venerdì santo con il Cristo morto (come avviene ancora oggi a
Germignaga).
Pian piano la Via Crucis venne strutturata in 14 stazioni (rappresentate
da altrettante cappellette o quadri) distribuite lungo un percorso da percorrere
meditando e pregando i misteri della passione.
Nella Diocesi di Milano fu s. Carlo Borromeo a promuovere l'esercizio della
Via Crucis nei venerdì di quaresima, quando - come è tradizione
del rito ambrosiano - non si celebra la s. Messa.
Così i primi decenni del 1700 costituiscono un periodo ricco di esperienze
religiose come le Quarantore, la Via Crucis, le devozioni al Nome di Gesù,
ai Santi, alle anime del purgatorio. E' in quegli anni che nascono anche
le relative confraternite.
Anche la Valtravaglia viene coinvolta in questa grande rinascita devozionale.
Nel 1853 le Orsoline di Bedero offrono alla chiesa prepositurale le 14 immagini
della Via Crucis. Ad imitazione dei Sacri Monti, anche la Via Crucis ha
ormai assunto la forma delle 14 cappelle, costruite attorno alle chiese
o ai cimiteri, come ancora oggi vediamo in qualche paese che ha avuto la
buona sorte di conservarle.
Questi antichi percorsi devozionali valtravagliesi (come si deduce dai documenti
d'archivio) furono: nel 1753 a Porto Valtravaglia, in località il
fiume, presso l'oratorio dell'Immacolata;nel 1756 a Bedero attorno alla
Canonica; nel 1763 a Castelveccana al cimitero di s. Pietro; nel 1769 attorno
alla chiesa parrocchiale di Porto; nel 1784 attorno alla chiesa di s. Maria
di Corte a Muceno; nel 1784 attorno alla chiesa di Domo e all'antico cimitero
davanti alla chiesa di s. Stefano; nel 1825 a Nasca; nel 1825 a Sarigo presso
la chiesa di s. Giorgio; nel 1827 a Castelveccana attorno alla chiesa di
s. Pietro; nel 1839 attorno alla chiesa di Musadino; nel 1842 a Brezzo presso
l'oratorio di s. Rocco.
Di questi percorsi ben poco è rimasto, ad eccezione delle cappellette
di Domo e qualcuna attorno alla Canonica di Bedero e alla chiesa di S. Pietro.
Da questo fervore religioso, nacque appunto la nuova dedicazione della nostra
chiesetta dell'Immacolata al fiume, come la conosciamo oggi: "Madonna
delle cappelle".
Foto in alto degli anni '30 nella quale si vedono le ultime cappelle
della Via Crucis, ormai in rovina, e sotto il portichetto i fedeli in sosta
durante una processione eucaristica. Il parroco era don Giovanni Pozzi.
altra foto degli anni '30: le cappelle sono scomparse
foto del 1911: le cappelle si intravedono a sinistra della chiesa
Via Girelli e le Orsoline
Alcuni si chiedono l'origine del nome dato alla strada che attraversa la frazione di Domo intitolata "Via Girelli". Per trovare una spiegazione occorre fare un passo indietro nel tempo, fino al 1500.
Con il nome Orsoline vengono indicate numerose religiose (sia suore che
monache) e appartenenti a istituti secolari: molte hanno in comune il riferimento
ad Angela Merici, altre hanno adottato il nome di "orsoline" come
sinonimo di "insegnanti".
L'originaria congregazione delle Orsoline fu fondata da Angela Merici (1474-1540),
canonizzata nel 1807: dopo l'ingresso nel terz'ordine francescano, iniziò
a impartire lezioni di catechismo alle bambine e ragazze di Desenzano e
nel 1516 venne invitata a svolgere la stessa opera a Brescia. Dopo un pellegrinaggio
a Roma e in Terra Santa, il 25 novembre 1535, presso la chiesa di Santa
Afra a Brescia, Angela, assieme ad altre ventotto compagne, si impegnò
a dedicare il resto della sua vita al servizio di Dio, specialmente mediante
l'istruzione e l'educazione delle fanciulle: diede così inizio alla
Compagnia delle dimesse di sant'Orsola. Le prime orsoline vivevano "da
vergini nel mondo", ovvero non praticavano vita comune, non avevano
abito religioso e non emettevano voti.
Le dimesse della Compagnia rimanevano nello stato laicale, conducevano una
vita ritirata, si riunivano periodicamente per la comunione generale, seguivano
la regola preparata dalla fondatrice ed erano soggette all'autorità
dei vescovi locali, che riconoscevano come unici superiori.
La compagnia ebbe rapida diffusione. Nel 1566, per esempio, Carlo Borromeo
chiamò le orsoline a Milano. Seguendo il suo esempio, molti vescovi
favorirono la formazione di compagnie di orsoline nelle loro diocesi. Alla
fine del 2008 esistevano ancora 31 monasteri di orsoline con 312 religiose
di voti solenni.
Le orsoline secolari, disperse e quasi scomparse durante il periodo napoleonico,
risorsero a Brescia per opera delle sorelle Maddalena ed Elisabetta Girelli,
aiutate dal vescovo Girolamo Verzieri. Le sorelle Girelli curarono anche
la diffusione delle orsoline in altre diocesi d'Italia e del mondo, dando
origine a numerose compagnie diocesane.
Nel 1947 papa Pio XII promulgò la costituzione Provida Mater Ecclesia,
con la quale vennero creati gli istituti secolari, e le compagnie diocesane
di orsoline vennero inquadrate come tali, dando poi vita alla Compagnia
di Sant'Orsola (o "Istituto Secolare di Sant'Angela Merici"),
con sede principale a Brescia.
Tra le numerose congregazioni di orsoline attualmente esistenti, le maggiori
sono le Suore Orsoline di San Carlo di Milano, la più antica congregazione,
sorte per volontà di Carlo Borromeo (1566) e restaurate nel 1824
a opera di Maria Maddalena Barioli. Fino a qualche decennio fa presso la
Canonica di Bedero c'era una Casa delle Orsoline.