Poco sappiamo della vita di Giovanni Andrea Binda. Nato nel 1803 a Rezzago
in Valassina, da Francesco Antonio e Caterina Carminati, morì settantenne
a Castello -oggi in comune di Castelveccana- il 3 giugno 1874, di "bronchite
capillare cronica", come recita l'atto di morte. Era divenuto parroco
di S. Pietro in Castello nel novembre del '29, succedendo a Pietro Perelli,
trasferito ad altra sede. L'archivio della sua parrocchiale poco conserva
di lui, se si eccettuano le quarantennali scritture anagrafiche, vergate
con l'inconfondibile minuta grafia: vi sono ancora due petizioni al vicario
foraneo, per officiare l'ampliamento della casa parrocchiale o per chieder
licenza, dovendosi assentare qualche settimana e andar a passar le acque
ai bagni di Masino presso Sondrio; vi è ancora una curiosa "nota
dei danari ed effetti che i sottonotati individui hanno consegnato o promesso
di consegnare in caso di sviluppo dell'epidemia di colera" redatta
il 9 settembre 1836 (si temeva il diffondersi dell'epidemia già manifestatasi,
l'anno precedente, in Liguria e Piemonte e che avrebbe fatto strage, in
quei mesi e nell'anno successivo, nelle due Sicilie).
Molto più sappiamo sulle sue curiosità intellettuali; un discreto
mazzo di note e appunti, riuniti talora in fascicoli, denominati da lui
stesso "magazzini" o "selve", è conservato presso
l'archivio parrocchiale di Domo Valtravaglia. Come siano finiti lì
è facile intendere: anche Francesco Cristini, parroco di Domo fra
il 1897 e il 1908, coltivò interessi storici; verosimilmente fu lui
a procurarsi quegli scritti, giacenti presso la parrocchia di Castello,
conservandoli del resto con ogni cura.
Il Binda può dirsi il primo indagatore serio, su basi scientifiche
e "moderne" del nostro passato: per giungere ad una storia non
più basata su fantasie encomiastiche o su tradizioni incontrollate,
ma solidamente ancorata al documento; ebbe la fortuna di muoversi in un
momento in cui molti archivi erano ancora integri, non saccheggiati o dispersi,
come lo sarebbero stati particolarmente in Valtravaglia e nella regione
luinese, di gran lunga le più sfortunate delle terre poste sulla
riva occidentale del Verbano.
La modestia, e fors'anche i limiti di una personalità dotata per
l'analisi ma recalcitrante alla sintesi, gli impedirono di tradurre i lavori
preparatorii in una organica storia della Valtravaglia che sarebbe stata
di gran pregio e certamente superiore in qualità a quelle che vennero
poi. Molti ricorsero a lui, dal Boniforti -fortunato autore d'una "guida"
verbanese che ancor si legge- al Bazzoni, medico presso l'Ospedale di Luino,
che aveva ripreso le memorie del notaio Giuseppe Luvini per ampliarle e
aggiornarle (pur egli non portò mai a compimento il volonteroso tentativo).
Il grande De Vit si avvalse delle informazioni che il Binda aveva tratto
dall'archivio parrocchiale di Dumenza, e pubblicò quattro lettere
inedite di san Carlo da lui favoritegli, non senza elogiare il corrispondente.
La lezione del Muratori aveva ormai dato i suoi frutti. La diffidenza nell'accettare
il contenuto del documento, pervenuto spesso in copia tarda, ci pare persino
eccessiva. Così, ritrovata notizia circa la consacrazione della chiesa
del Carmine a Luino, egli ne dubitò, poiché vi era nominato
un vescovo di Como, Branda Castiglioni, che può essere confuso col
famoso cardinale di inizio secolo; ma successivamente, rintracciato non
dubitabile argomento circa la verosimiglianza della carta luinese, con tutta
onestà si ricredette. E aveva ragione da vendere quando smontò
la leggenda alimentata dalla famiglia Luini, complice il facilone Morigia,
che l'arcivescovo milanese Anselmo IV fosse della loro prosapia: in realtà
di Anselmo da Bovisio si tratta, e non d'un Anselmo Luini.