dai nostri archivi: ricerche storiche

storia, curiosità e approfondimenti per non dimenticare

(a cura di Filippo Colombo)


La chiesa di Ligurno

E’ dedicata a San Rocco e alla Madonna della neve . Mancano però fonti documentali che contribuiscano a risolvere alcune questioni aperte circa la costruzione della chiesa. Soltanto una tarda relazione, stesa in occasione di una visita pastorale, nel 1930, consente di attribuire l'edificio attuale a lavori intrapresi tra il 1630 e il 1640.

La costruzione è semplice e si caratterizza, all'esterno, per il portichetto aperto in facciata e il campaniletto, dalla singolare (ma non infrequenze nell'area) pianta triangolare. L'edificio è frutto di un'unica fase costruttiva seicentesca; all'interno, coperto con ampie volte a crociera, lungo la parete sinistra, sopra un basamento d'altare, trovò riparo un affresco più antico, del XVI sec., opera di Guglielmo Jotti da Montegrino che firmò l'opera e la datò 29 agosto 1517e appartenente ad una precedente chiesa esistente nella località, con dedicazione a S. Maria e demolita senza lasciare traccia.
La chiesa si sviluppa in un'unica aula per fedeli di forma rettangolare; su questa s'innesta la cappella maggiore, quadrata. Dietro il presbiterio, due porte conducono ai locali adibiti a depositi e sacrestia.
L'altare maggiore antico, opera tardo neoclassica in marmi policromi, s'innalza sulla parete di fondo del presbiterio. Racchiude un ingenuo affresco, coevo, ma assai ritoccato, con la Madonna, il Bambino e i santi Rocco e Sebastiano. Si conserva la balaustra settecentesca di delimitazione verso l'aula fedeli.
Attorno al 1967, per dare immediatamente corso alle prescrizioni conciliari, fu collocata una nuova mensa d'altare mobile al centro del presbiterio, salvaguardando, in tal modo, l'assetto di quel settore della chiesa, così come ereditato. La mensa d'altare si presenta oggi come un tavolo ligneo ornato sul frontespizio da un bassorilievo con l'Ultima Cena di Leonardo.
La festa della frazione si celebra tradizionalmente la prima domenica d’agosto, vicino alla festa liturgica della Madonna della neve.

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La chiesa di San Giorgio a Sarigo

La costruzione della chiesa, nelle forme che ancora oggi per buona parte si ammirano, è ascrivibile, per l'adozione di moduli del romanico maturo, alla metà del XII sec. A quel tempo risalgono l'abside, a profilo semicircolare, l'aula fedeli e il campanile, singolarmente innalzato nella mezzeria della facciata, di cui la chiesa, di fatto, è priva.
Gli interventi compiuti nel corso del XVI sec. non alterarono l'assetto cristallino della chiesa d'età romanica; vanno comunque segnalati, soprattutto per via del ciclo di affreschi nell'abside che, già presente al tempo delle prime visite pastorali (1570 circa), è stato finalmente ricoperto, sotto gli scialbi, in anni recenti. Pure al XVI sec., o gli inizi del XVII sec., vanno riferiti i lavori che portarono alla creazione di due volte a crociera sopra le campate dell'aula fedeli, un tempo con soffitto ligneo sorretto da cavalletti a vista.
Entro il 1683 fu compiuta la riforma più radicale: l'invaso della chiesa fu raddoppiato chiudendo con pareti un portico che, in precedenza, si allungava sul fianco settentrionale dell'aula fedeli. La chiesa antica, in sostanza, fu inglobata in una nuova, di poco più ampia, ma sopravvisse integra e perfettamente leggibile nei suoi caratteri originari.

Nel 1985 (parroco don Walter Casola) venne rifatta la copertura in piode; i lavori sono stati diretti dall'arch. Fiorenzo Ramponi di Porto Valtravaglia. Nel 2012 grazie alla sponsorizzazione privata dei lavori, è stata avviata un'operazione di restauro conservativo all'interno della chiesa, interessata da preventive campagne di scavi archeologici e di sondaggi stratigrafici. In tal modo, è stato possibile recuperare sia significative tracce della chiesa romanica e di alcune sue fasi costruttive, sia l'intero ciclo di affreschi nell'abside di cui si era a conoscenza, sino ad allora, solo per via documentale. I lavori sono stati diretti dall'architetto Luigi Terrenghi di Parabiago (Mi). Il restauro conservativo dei cicli affrescati è stato condotto dal laboratorio di restauro di Maria Luisa Lucini.

Il S. Giorgio di Sarigo presenta, più di ogni altra chiesa dell'Alto Verbano Lombardo, "un'architettura unitaria, capace di renderci ancora il senso pieno di un'epoca e di uno stile" (Frigerio, Mazza, Pisoni). Dell'edificio originario restano il campanile e l'abside, "costruiti con grande abilità e senso formale". Il campanile è meno slanciato rispetto ai modelli comaschi da cui, apertamente, deriva. Probabile sia stato ridotto nel corso dei secoli. Mostra, su tutte e quattro le facciate in pietre ben lavorate, campiture delimitate da lesene e coronate da file di archetti ciechi. L'abside, esemplare lavoro di tecnica muraria, è scandita da due esili semicolonne, con piccoli capitelli lavorati; gli archetti ciechi sono ricavati a due a due da un blocco unico di pietra, di vario tipo e con spiccato senso cromatico nell'accostamento. I peducci sono intervallati da blocchetti di "tufo" e decorati con motivi figurativi.
La chiesa, a doppia navata, è correttamente orientata. L'ingresso, per la presenza del campanile in facciata, avviene sul fianco laterale rivolto a monte (sud). L'abside presenta, per l'accurato accostamento di pietre di diversa natura, uno spiccato senso cromatico, segno della capacità del romanico maturo, pur in un contesto rurale e con mezzi semplici, di raggiungere elevate qualità estetiche e decorative.

Il catino absidale è interamente rivestito di affreschi, già scialbati nel 1567. Il ciclo, recentemente recuperato, attende ancora una corretta identificazione iconografica e l'attribuzione ad una bottega operante tra Alto Milanese e il lago Maggiore.
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La chiesa di San Rocco a Porto

Con il rifacimento della copertura del timpano di facciata effettuato nelle scorse settimane, possono dirsi terminati i lavori di restauro della chiesa dedicata a san Rocco.
La chiesa era già stata oggetto di un ampio restauro nel 1980-81 (parroco don Carlo Rimoldi) ed i lavori terminarono nel 1983, in occasione del 350° di fondazione della chiesa. Venne ripassato il tetto, eseguita l'imbiancatura interna ed esterna, il portone, il sagrato, l'altare, questo con il recupero di alcuni pezzi delle balaustre della chiesa parrocchiale.
Un ulteriore intervento, avviato nel 2014 per desiderio del compianto don Walter, prevedeva il rifacimento del tetto, terminato nel 2015.
L'occasione dei lavori ha permesso di portare a terra la campana per sottoporla ad un necessario restauro. L'incarico era stato affidato alla geom. Angela Riganti di Castelseprio che, prima di effettuare un vero e proprio restauro, ha eseguito indagini chimiche e stratigrafiche allo scopo di acquisire dati utili sia al successivo lavoro di restauro sia al riconoscimento dei materiali e delle tecniche esecutive del manufatto. Sono state effettuate opportune prove di pulitura, per una corretta e reale valutazione dello stato di conservazione delle superfici originali.
Sono stati sostituiti il batacchio e la ruota, mentre si sono conservati i ferri di aggancio ed il supporto in legno, tutti restaurati e protetti con appositi materiali resistenti al tempo.
Il risultato finale è stato eccellente e l'intervento ha fornito interessanti informazioni sulla campana, la cui fusione è avvenuta 36 anni dopo la costruzione della chiesa. Era infatti il 1633 quando l'antico edificio veniva ampliato e trasformato così come lo vediamo oggi.
Anzitutto la dedica: "Ave Maria Gracia anno 1669"; poi le quattro figure che adornano la parte centrale: la Madonna con il Bambino, san Rocco con cane e bastone, sant'Ambrogio con mitria e flagello, il Cristo risorto con la croce. Sotto la figura della Madonna appare una croce sormontata da una corona.
L'edificio fu costruito nel 1523, forse in segno di riconoscenza per una scampata ondata pestilenziale. Si trattava, di fatto, di una semplice cappella aperta, ossia senza facciata, doveva essere di forma quadrata (la prima parte dell'attuale navata) con ingresso dalla strada e con un solo altare sul quale era dipinta una Madonna di Loreto, circondata da santi popolarmente invocati contro le pestilenze.
All'interno si conserva, sulla parete destra, lo strappo di un affresco cinquecentesco (1523) appartenente alla prima fase costruttiva della chiesa. Raffigura la Madonna col Bambino nell'atto di proteggere la chiesa parrocchiale, circondata dai santi Sebastiano, Rocco, Cristoforo e Antonio abate (o Biagio). L'affresco si colloca nell'area di produzione della bottega di Giovanni Battista Lampugnani da Legnano.
La chiesa venne ampliata nel 1633, mediante una sottoscrizione già iniziata il 25 novembre 1630 con apposito atto notarile, perché il santo preservasse il paese dalla peste.
L'anno decimo del pontificato di Urbano VIII, il prevosto di Bedero don Orazio Martignoni, il giorno 9 agosto 1633 ricevette dalla Sede Apostolica la delega per procedere alla benedizione della chiesa. Il 30 settembre 1699 Chiara Beltramini moglie di Francesco Castellotti, detto il Canobino, lasciò per testamento 600 lire in favore della chiesa di s. Rocco perché si celebrasse una messa di suffragio per Giovanni Battista Isabella.

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La chiesa di Santo Stefano a Domo

La chiesa sorge nel complesso della frazione di Domo, già centro plebano di rilevante antichità e di riferimento per l'intero territorio dell'alto Verbano Lombardo. In questo contesto, S. Stefano avrebbe svolto il ruolo di piccolo oratorio per le funzioni invernali, accanto alla chiesa "grande", ancora conservata, ancorché alterata, adatta alle cerimonie estive, e ad un battistero recentemente ripristinato all'antico uso. L'attuale S. Stefano corrisponde al solo presbiterio della chiesa ricostruita probabilmente tra XIV e XV sec.; la navata, infatti, fu trasformata in casa coadiutorale nel corso del XIX sec. Pertanto, lo spazio oggi dedicato alle funzioni si articola su una pianta sostanzialmente quadrangolare e si conclude con una bella volta a crociera costolonata innestata a considerevole altezza. Le murature sono in pietrame misto, a sezione normalizzata. L'ingresso è rivolto alla piazza pubblica interna al complesso per mezzo di una scalinata e di una bella porta di sapore rinascimentale, che immette direttamente nel ridotto presbiterio. Di rilevanza, in relazione ai luoghi, il ciclo affrescato che si sviluppa sulle tre pareti superstiti del presbiterio e sulle vele della volta: vi sono raffigurati, tra i soggetti riconoscibili, i Padri della chiesa latina e gli Evangelisti (sulla volta), una grande Crocifissione (parete absidale) e, sulla parete laterale meridionale, una Discesa al Limbo. Una fascia interiore di raccordo presenta una teoria di Apostoli.
I cicli affrescati interni costituiscono l'elemento di maggiore interesse della piccola chiesa. Un tempo estese a tutto lo spazio sacro, le raffigurazioni sono oggi visibili nel solo presbiterio che, nonostante gli scialbi ottocenteschi, rappresenta il complesso di affreschi di maggior interesse dell'intero Alto Verbano Lombardo. Per buona parte, si tratterebbe, secondo recenti studi, di lavori dei primi decenni del XVI sec. della bottega locale di frescanti, diretta da Guglielmo Jotti da Montegrino.
La possibilità di retrocedere almeno al X sec. la fondazione della chiesa di S. Stefano è permessa dalla sopravvivenza, nel centro plebano di Domo, entro il quale sorge la chiesa stessa, di un edificio autonomo ad uso di fonte battesimale, conservatosi ancora leggibile nelle caratteristiche riferibili ad età protoromanica. Col battistero e la chiesa plebana di S. Maria Assunta (oggi parrocchiale), S. Stefano componeva un complesso che replicava, in modi semplici, gli schemi adottati nei centri maggiori e che prevedevano, accanto al battistero, una chiesa grande in funzione di chiesa estiva e una chiesa più piccola, per le funzioni invernali, quale, per l'appunto, sarebbe stata S. Stefano.
I caratteri attuali dell'edificio e la mancanza di studi approfonditi non aiutano a determinare se, nelle forme attuali, la chiesa sia frutto di una fase costruttiva di rilevante antichità o, invece, di una risalente alla fine del XIV sec. o all'inizio del secolo successivo. La presenza di un solido abside quadrangolare, innestato su un'aula fedeli rettangolare, infatti, è elemento che induce tanto a pensare ad una ricostruzione tre o quattrocentesca, tanto a moduli diffusi tra alto e basso medioevo. Sembra deporre a favore di una datazione più recente la bella porta d'ingresso, coronata da un attico classico, che parrebbe lavoro quattrocentesco eseguito in contemporanea con importanti lavori interni (inserimento di volte a crociera sul presbiterio) e di rilevanti cicli affrescati .
A partire dalla metà del XVII sec., l'oratorio venne adibito ad uso di cappella per le sepolture, in appendice al cimitero che si estendeva tra il medesimo, la plebana di S. Maria Assunta e il battistero. Ciò determinò la progressiva decadenza, sino a che, nel 1849, fu soppresso e la metà corrispondente all'aula fedeli trasformata in casa coadiutorale. In tal modo, furono occultati e danneggiati alcuni cicli di affreschi presenti sulle pareti laterali dell'aula fedeli e sopra l'arco trionfale.
I lavori risparmiarono la cappella maggiore che, nel 1894, fu riaperta al culto sotto il titolo di S. Luigi. Purtroppo, fu questa l'occasione per maldestri adattamenti, tra cui lo scialbo di tutte le pareti del presbiterio sulle quali si erano sino ad allora conservati estese porzioni dei cicli affrescati cinquecenteschi.

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Le vetrate dei f.lli Villa

Giuseppe Villa insieme al fratello Filippo sono gli autori delle vetrate che decorano la chiesa parrocchiale di Porto, commissionate dall'allora parroco don Carlo Rimoldi in occasione di periodici lavori all'interno della chiesa, fino al rifacimento del presbiterio, negli anni '80.
Originari di Buscate (Milano) discendono da una famiglia che conta ormai cinque generazioni di artisti.
Dopo la morte di Giuseppe, il laboratorio d'arte è gestito dal fratello Filippo, pittore, scultore, restauratore, mastro vetraio, che opera da oltre sessant’anni. Diplomato all’Accademia di Brera a pieni voti e con medaglia d’argento, ha svolto per diverso tempo attività dapprima col padre e quindi con il fratello, collaborando al restauro, alla decorazione, alla realizzazione di vetrate ed altre opere per chiese della Brianza, della Valtravaglia, di altre zone della Lombardia e di vari centri della Sicilia, soprattutto a Messina e provincia. Insieme al fratello Giuseppe è caposcuola di una sua particolare forma di arte figurativa.
Non ha mai peraltro trascurato la pittura, realizzando nel tempo opere ispirate a svariate tematiche, sociali, storiche, letterarie, oltre a ritratti, figure e temi sacri.
Operando con coerenza un progressivo rinnovamento stilistico, dall’iniziale modello rappresentativo ad una sempre più moderna concezione figurale, la pittura di Filippo Villa ha acquisito una carica espressiva in cui la dimensione grafica e coloristica interpreta con vigore i soggetti, affrontando con notevole spessore comunicativo le tematiche prescelte. Pur rimanendo legato in qualche modo a una visione figurativa, l’artista ha avvertito l’esigenza di dar vita alle proprie emozioni attraverso un nuovo linguaggio, nel quale spesso segni liberi e linee orientale si sovrappongono all’immagine, scomponendola in piani densi di colore.
Questa scelta grafica accentua la carica emozionale del dipinto, introducendo un ritmo imprevisto, un dinamico alternarsi di luci, piani, tracce di un disegno incisivo nel suggerire i volumi e le ombre; mentre il colore, dalle tonalità brillanti, appare luminoso, vibrato, con una valenza comunicativa che va oltre la dimensione naturalistica.
La rappresentazione del soggetto si fa così sempre appassionata, realizzando in una pregevole sintesi pittorica un equilibrio espressivo che coniuga sentimenti, sensazioni, emozioni, tematiche sociali o spirituali, lasciando affiorare il senso del ricordo, di suggestive memorie ricche di valori e spunti di riflessione.
(dal sito web di Giuseppe Villa)

 

Nella chiesa di Porto troviamo le vetrate dei fratelli Villa con i seguenti soggetti:

Sant'Ambrogio e San Massimo (nell'abside), la Deposizione dalla Croce (cappella laterale sinistra);l'incoronazione della Madonna, l'Annunciazione e la Pentecoste sulla parete di destra), (la Deposizione dalla Croce, cappella laterale sinistra)


Arturo Galli, «pittore del sacro» a Domo

I restauri interni della chiesa di Domo, ultimati nel 2012, hanno ridato ampio risalto a due grandi affreschi posti sulle pareti laterali dell'edificio, a metà navata, uno di fronte all'altro. Raffigurano rispettivamente la Natività di Gesù e san Giovanni Bosco con Maria Ausiliatrice. Erano stati fatti realizzare dall'allora parroco don Carlo Agazzi Rota in occasione di un vasto restauro interno della chiesa iniziato nel 1943 e culminato con la consacrazione della chiesa stessa ad opera del card. Schuster il 12 agosto 1947 come ricorda una lapide sulla controfacciata interna, il cui testo è stato da lui stesso dettato a perpetua memoria.
La sola pulizia delle due opere ha conferito loro una luminosità che fa quasi "leggere" all'osservatore attento la vitalità degli affreschi. In un angolo, il nome dell'artista Arturo Galli, definito con altri come un dimenticato pittore del sacro, morto nel 1963.

«I dimenticati pittori del sacro». Così un acuto storico dell’arte come Giorgio Mascherpa già trent’anni fa aveva definito quel folto e variegato gruppo di artisti italiani che nella prima metà del ventesimo secolo si era dedicato prevalentemente a tematiche religiose, dentro e fuori le chiese del nostro Paese, e che anche solo per questo, al di là dei meriti personali, per modestia propria o per snobbismo altrui, era stato confinato in una sorta di impenetrabile cono d’ombra. Dimenticati, sì. Emarginati, perfino, dal gran mondo dell’arte, come artigiani di seconda classe, come decoratori di basso livello...
La storia di Arturo Galli, da questo punto di vista, pare emblematica. E ricordarla oggi, pare come una sorta di tardivo ma doveroso omaggio al genio e alla dedizione non solo di questo infaticabile e sensibile pittore milanese, ma anche di tutti quegli artisti sbrigativamente considerati “minori”, ma che, come lui, hanno generosamente consacrato la loro carriera, e la loro stessa vita, a un’arte che fosse davvero al servizio della fede e della Chiesa. Con onestà intellettuale e bravura tecnica, con umana passione e spirituale devozione.
Ancora oggi oltre cinquanta sacri edifici in tutta la diocesi portano il segno dell’arte del Galli, dal cuore di Milano al varesotto, dal lecchese alla cintura metropolitana: chi interi e vasti cicli di affreschi, chi vetrate multicolori, chi ancora pale d’altare o semplici quadri con figure di santi, quasi una sorta di moderni ex voto. Eppure pochi, probabilmente, ricordano il nome del loro autore, e ancor meno ne conoscono la figura e il suo intenso operato.
Arturo Galli era nato a Milano, nell’ultimo scorcio del diciannovesimo secolo. I primi rudimenti della pittura li ebbe in famiglia, per poi frequentare l’allora prestigiosa Scuola d’arte del Castello Sforzesco e i corsi dell’Accademia di Brera. Era bravo, il giovane Arturo. Un talento naturale per il disegno dal vero, per il ritratto, per la figura.
Tanto da conseguire rapidamente l’abilitazione all’insegnamento. E tentare, a neppure vent’anni, la dura competizione dei concorsi e dei premi. Ma le sue opere, pur assai lodate (come leggiamo nelle cronache dell’epoca), non ottennero i riconoscimenti sperati, provocando forse in lui quella delusione e quell’amarezza che lo portarono ben presto ad abbandonare il pubblico dei saloni e delle mostre, per concentrarsi su una pittura più intima e meditata.
Di carattere schivo e riservato, animato da una fede sincera, Galli dovette intuire allora quale fosse la sua vera strada al servizio dell’arte sacra, stimolato e confortato anche dal sostegno di alcune significative personalità religiose come, ad esempio, monsignor Buttafava, all’epoca canonico del Duomo di Milano.
La prima commissione di rilievo l’ebbe nel 1926, per la parrocchiale di Paderno Dugnano, oggi purtroppo distrutta. Con quel grandioso lavoro, Arturo Galli dimostrò una tale padronanza dell’antica tecnica dell’affresco e una tale abilità interpretativa e compositiva da assicurarsi l’ammirazione di molti in campo ecclesiastico, e non solo, tanto da iniziare, dopo di allora, un’attività pluridecennale a dir poco frenetica, con richieste da ogni parte in terra di Lombardia.
Proprio le continue richieste, del resto, che a volte andarono accavallandosi in diversi cantieri aperti contemporaneamente, possono spiegare talora una pittura un po’ manierata e ripetitiva. Pittura, tuttavia, che là dove è riuscita a dare il meglio di sé si dimostra ariosa e solenne, michelangiolesca nell’ispirazione e neorinascimentale nell’impostazione, quasi nella ripresa di quelle stesse indicazioni accademiche suggerite agli inizi del Seicento dal cardinale Federico Borromeo per un’arte veramente pia. E che gli valsero il plauso dello stesso cardinal Schuster.
Che poi quella di Arturo Galli fosse una scelta ragionata e non una carenza di aggiornamento culturale, lo rivelano i molti bozzetti e schizzi del maestro giunti fino a noi, dove il segno vivace e il tocco brioso dimostrano la consapevolezza di appartenere al proprio tempo e la conoscenza della modernità. Che Galli non volle ripudiare, ma in qualche modo trasfigurare nelle sue opere in una ricerca di eternità.

Luca FRIGERIO su Avvenire del 3 marzo 2013


S. Pietro da Verona

Chi frequenta la chiesa della frazione di Musadino, intitolata anticamente a s. Pietro martire, poi successivamente alla Madonna di Lourdes, avrà anche notato che a sinistra dell'altare campeggia un affresco di autore ignoto che raffigura un monaco che regge la palma del martirio e ha un grosso coltello nella testa. E' un'immagine popolare di s. Pietro martire.

Ma chi era costui?
Nacque a Verona alla fine del sec. XII in una famiglia eretica, ma già ragazzino si oppose ai suoi parenti. Continuò gli studi all’Università di Bologna dove poi entrò nell’Ordine Domenicano, quando s. Domenico era ancora in vita.
Notizie storiche lo citano come grande partecipe nella fondazione delle Società della Fede e delle Confraternite Mariane a Milano, Firenze ed a Perugia; queste istituzioni a difesa della dottrina cristiana sorsero poi presso molti conventi domenicani; questo fra il 1232 e 1234.
Dal 1236 lo si incontra in tutte le città centro-settentrionali d’Italia come grande predicatore contro l’eresia dualistica, ma Milano fu il campo principale del suo apostolato, le sue prediche e le sue pubbliche dispute con gli eretici, erano accompagnate da miracoli e profezie così molti ritornavano alla vera fede del Vangelo. Il papa Innocenzo IV nel 1251 lo nominò inquisitore per le città di Milano e Como. La lotta fu dura perché l’eresia era molto diffusa e nella domenica delle Palme 24 marzo 1252 durante una predica egli predisse la sua morte per mano degli eretici che tramavano contro di lui, assicurando i fedeli che li avrebbe combattuto più da morto che da vivo.
I capi delle sette delle città di Milano, Bergamo, Lodi e Pavia, che per brevità non riportiamo i nomi, assunsero come esecutori, i killer di allora, Pietro da Balsamo detto Carino e Albertino Porro di Lentate. Essi prepararono un agguato vicino a Meda dove Pietro, Domenico e altri due domenicani, nel loro tragitto da Como a Milano il 6 aprile 1252 si erano fermati a colazione prima di proseguire per la loro strada.
Albertino ricredendosi abbandonò l’opera e fu il solo Carino che con un "falcastro", tipo di falce, spaccò la testa di Pietro, immergendogli anche un lungo coltello nel petto, l’altro confratello Domenico ebbe parecchie ferite mortali che lo portarono alla morte sei giorni dopo nel convento delle Benedettine di Meda. Il corpo di Pietro fu trasportato subito a Milano dove ebbe esequie trionfali e fu sepolto nel cimitero dei Martiri, vicino al convento di s. Eustorgio. In quello stesso giorno si diffondevano notizie di miracoli. Tra queste grazie, bisogna annoverare la conversione del vescovo eretico Daniele da Giussano che aveva macchinato la sua morte e dello stesso assassino Carino che entrarono poi nell’Ordine Domenicano.
Il grande clamore suscitato dall’uccisione ed i tanti prodigi che avvenivano fecero si che da tutte le parti si chiedesse un innalzamento agli altari del martire. Undici mesi dopo, il papa Innocenzo IV il 9 marzo 1253, nella piazza della chiesa domenicana di Perugia, lo canonizzò fissando la data della festa al 29 aprile.
Il suo culto ebbe grande espansione, i domenicani eressero chiese e cappelle a lui dedicate in tutto il mondo, le Confraternite ebbero in ciò un’importanza notevole. E’ raffigurato con la tonaca domenicana, con la palma del martirio, con la ferita sanguinante dalla fronte al capo, oppure con una roncola che penetra nel cranio, con il pugnale infitto al petto o ai fianchi, secondo l’estro dell’artista.
E’ uno dei santi più raffigurati, quasi tutti gli artisti si cimentarono a dipingerlo dal 1253 in poi, visto la grande diffusione che aveva l’Ordine Domenicano sia in chiese, che conventi, congregazioni, ecc. La sua data di culto è il 6 aprile, mentre l'Ordine Domenicano lo ricorda il 4 giugno.


la Cappella "Porta"

E' notizia inedita quella che consente di identificare nella parrocchiale di Porto Valtravaglia una cappella costruita dalla famiglia Porta, forse in origine dedicata a mausoleo famigliare. Nonostante devozione ed elargizioni, dispensate quasi senza soluzione di continuità dal Cinquecento al Settecento, il tempo ha cancellato dalla memoria collettiva il nome della famiglia donatrice. Se la rotazione delle intitolazioni degli altari laterali ha stravolto la primitiva dedicazione a S. Michele Arcangelo, la sovrapposizione di lasciti di altre famiglie, raccolte nella confraternita del Rosario accreditata presso la medesima cappella, rende difficile districare il meccanismo di prodigalità che ha consentito di affrescarne la volta con una bella scena di angeli musicanti incentrata sulla colomba dello Spirito Santo, principale tra le "opere d'arte" accumulate nella quasi millenaria vicenda della chiesa di S. Maria Assunta.
Appare, invece, chiaro che l'idea e le prime sostanziali donazioni a favore della creazione di una cappella si devono alla figura del capostipite famigliare, Giroldino I, a partire dal 1520, quando aveva vincolato gli eredi e la moglie a costruire in sua memoria un altare nella chiesa di Porto
Nel 1569, durante una visita del delegato del cardinale Borromeo, si verificava che l'antico invaso della chiesa - risalente almeno al XIII sec., era già scandito in tre navate, che l'abside era stata recentemente ampliata: lavori di ammodernamento, dunque, stavano interessando in quegli anni la parrocchiale, a partire dall'altare maggiore e dalle navate laterali.
Il cantiere in corso era patrocinato per buona parte da lasciti e legati, fra questi quello dei Porta, proprio nella navatella nord (a sinistra dell'ingresso, rivolta verso il lago).
La cappella Porta, dunque, corrispondeva al luogo dove ora è collocato (dal 1770 ca.) l'altare del Rosario (o della Madonna). Si tratta di un ambiente dalle caratteristiche autonome, strutturali e decorative, rispetto alla rimante parte della chiesa: differente è la volta a vela, sostenuta e intersecata da due lunette sorgenti dai lati maggiori, differente è l'apparato decorativo.
Le visite pastorali che si susseguirono nei secoli non menzionarono il ricco rivestimento pittorico, con scene di angeli musicanti discendenti dalla colomba dello Spirito Santo. L'opera va quasi certamente ascritta alla prima metà del Seicento, per caratteri stilistici e tecnica esecutiva. (ndr- L'opera venne poi attribuita dalla Soprintendenza alla bottega degli Avogadro).
Il beneficio inaugurato da Giroldino I perdurò ancora sino agli ultimi decenni del XVIII sec., quando il rilancio della tradizione di famiglia, per merito dei discendenti settecenteschi del capostipite, divenne funzionale al raggiungimento dei titoli di nobiltà.
Ciononostante, e a scapito di qualche discontinuità, il legame della famiglia
Porta con la chiesa del borgo fu sempre sentito.
Non è escluso che un attento lavoro di analisi, documentale e materica, saggi stratigrafici oculati e una generale campagna di restauro della cappella in particolare urgente per gli affreschi nella cupola, possano restituire indizi e tracce di un primitivo sistema decorativo, sfuggito ai documenti e alle visite pastorali, utile ad inquadrare le vicende della ramificata famiglia Porta.
Ancorché svanita, anche nella memoria dei discendenti ottocenteschi della famiglia, l'originaria destinazione della cappella, la sentita dedizione dei Porta verso la chiesa parrocchiale, cuore spirituale attorno cui si è imperniata per secoli la vita del paese, non venne meno, neppure nell'Ottocento, e continua fino ai giorni nostri.


IL CONCERTO DEGLI ANGELI

Attribuito dalla Soprintendenza alla bottega degli Avogadro (o " de Advocatis"), dovrebbe risalire al secondo, terzo decennio del XVII secolo, quindi attorno al 1620-1630.
Nello stesso periodo, precisamente nel 1612 Johannes Baptiste de Advocatis (pittore milanese attivo nella provincia di Varese nei primi anni del "600) autore di una pala d'altare e di alcuni affreschi in S. Caterina del Sasso a Leggiuno, mentre nella chiesa di s. Stefano a Mombello ha lasciato la sua opera maggiore.
Qui ha affrescato la volta dell'abside con la "gloria della Madonna assunta in cielo" al centro di un concerto angelico, molto simile a quello in corso di restauro nella parrocchiale di Porto. Purtroppo non sono emersi testi o date utili ad attribuire definitivamente l'opera e la sua epoca di esecuzione, salvo la dedicazione a Maria sorretta da un paffuto angioletto propria sopra l'altare della Madonna.

(da una ricerca di Federico Crimi 2010)

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Gugliemo da Montegrino

Molti fra coloro che sono saliti all'alpe San Michele ed hanno visitato la chiesetta, avranno notato sotto il grande affresco della Madonna con Santi, un cartiglio parzialmente leggibile nel quale è scritto in caratteri medioevali la firma dell'autore: ... il giorno 21 agosto Guglielmo da Montegrino dipinse - (Michele o Angelo) da Ligurno fece fare quest'opera.

Tracciamo qui una breve storia di questo artista.

Guglielmo da Montegrino fu un pittore attivo tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo.
A lui si devono con certezza alcune opere (tra le quali, nel nostro territorio, la Madonna della chiesa di Ligurno e la Madonna con santi nella chiesa di S. Michele) mentre per altre ci sono problemi di attribuzione. Sembra che l'artista montegrinese abbia lavorato nella collegiata di San Vittore di Brezzo di Bedero, mentre è certo che egli dipinse gli affreschi della chiesa, oggi scomparsa, di S. Donnino a Roggiano (la studiosa Janice Shell ha ritrovato il contratto del  1520 con cui  Guglielmo da Montegrino si impegnava in tal senso con i committenti del lavoro). A Montegrino Valtravaglia dipinse l'affresco raffigurante S. Bernardino nella parete settentrionale della chiesa di S. Martino, datato 1488.
Anche l'abside della chiesa di Santo Stefano a Domo, nella raffigurazione della grande crocifissione, ricorda la mano di Guglielmo nel dipingere personaggi e animali. L'artista esprime nelle sue opere, soprattutto nella raffigurazione dei volti, una vena espressionistica, che spesso sfiora il grottesco, facilmente riconoscibile; il suo stile si caratterizza anche per una gamma cromatica che predilige i colori forti, accostati per contrasto. Il linguaggio delle immagini è sempre aspro e grafico, sottolineando con insistenza particolari di corpi e volti. Guglielmo da Montegrino, insomma, coniuga nella propria arte elementi di tradizione con influenze espressionistiche di gusto nordico e non rifiuta dei tocchi popolareschi.  Sua caratteristica è la presenza della parola all'interno dell'immagine, sotto forma di cartigli e didascalie di vario genere, in latino e in grafia gotica. La sua consuetudine di datare e firmare le proprie opere lo distingue dalla schiera dei pittori anonimi del suo tempo e testimonia anche la fama di cui dovette godere in vita.


Galdino della Sala

Ricordando la consacrazione della chiesa di Domo da parte del Card. Schuster avvenuta proprio il 12 agosto di settant’anni fa e il fatto che volle racchiudere nella mensa dell’altare fra altre reliquie di martiri anche quella di San Galdino, abbiamo voluto tracciare una breve storia di questo santo Arcivescovo di Milano, molto legato alla Valtravaglia.

Galdino della Sala, detto anche semplicemente San Galdino è stato un vescovo milanese, venerato come santo dalla Chiesa cattolica.
Fu un fervido sostenitore sia di papa Alessandro III, sia della popolazione milanese, nelle loro rispettive lotte parallele contro l'imperatore Federico Barbarossa. È ricordato in special modo per le sue opere caritatevoli a Milano, rivolte nello specifico ai poveri e a quanti erano finiti in prigione per debiti non saldati.
Galdino nacque a Milano nell'ultima parte dell'XI secolo o nei primi anni del XII; una data che ci viene indicata dalle cronache è quella del 1096, che ad oggi rimane comunque discussa. San Galdino era un membro della famiglia della Sala, di rango della bassa nobiltà cittadina.
Lo troviamo citato in molti atti dell'epoca riguardanti la Valtravaglia, tanto da far supporre che fosse originario di Bedero, dove - tra Ticinallo e Brezzo - esiste ancora una località detta della "sala".
Nel 1137 è senz'altro presente in Valtravaglia in occasione della visita dell'arcivescovo di Milano Robaldo, e lo troviamo fra i firmatari del famoso "privilegio" con il quale l'arcivescovo consente il trasferimento della sede della pieve da Domo a Bedero. Da quel documento (il cui originale è presso l'Archivio Storico Diocesano) sappiamo del primo preposto di cui è noto il nome: Guglielmo.
Nel 1149 Galdino riassumeva nella sua persona la doppia carica di Cancelliere e Arcidiacono, tanta era la fiducia che godeva da parte del suo Vescovo Robaldo e poi del suo successore Oberto da Pirovano.
Appoggiò fortemente la curia romana al momento dello scisma che avvenne nel 1159 dopo la morte del papa Adriano IV. Papa Alessandro III era il candidato promosso dalla Santa Sede, mentre l'antipapa Vittore IV era sostenuto da Federico Barbarossa e dai suoi cardinali. La Chiesa milanese sosteneva Alessandro III e Galdino stesso, come arcidiacono della cattedrale, prese posizione pubblicamente. Federico assediò Milano e lo imprigionò per sei mesi. Galdino incontrò quindi Alessandro III a Genova e lo seguì in un suo viaggio a Maguelonne, Montpellier, giungendo sino a Clermont.

Successivamente seguì ancora il Pontefice in Sicilia e quindi a Roma dalla quale tornò nel 1165. Quando Alessandro III tornò alla guida della Chiesa nel 1165, egli nominò Galdino cardinale di Santa Romana Chiesa con il titolo di Santa Sabina, e l'anno successivo lo nominò arcivescovo di Milano. L'anno successivo, Alessandro III nominò Galdino quale suo Legato Apostolico in Lombardia.
Quando la Lega Lombarda espulse il Barbarossa dai confini milanesi, Galdino prese possesso ufficialmente della propria sede, deponendo ogni sacerdote lombardo nominato dall'antipapa Vittore IV. Egli consacrò nuovi vescovi a Lodi, Alba, Cremona, Vercelli, Asti, Torino, Novara, Brescia e Alessandria.
Di Galdino si ricorda l'impegno per l'opera di ricostruzione dei Milano dopo la sua distruzione ad opera del Barbarossa e la sua attività a favore dei poveri, ricordata con l'epiteto di "pane di San Galdino" che era usato a Milano per il pane distribuito ai poveri e ai carcerati e forse è per questo motivo che Alessandro Manzoni chiamerà Galdino il personaggio del frate questuante per i poveri nei Promessi Sposi.
Il 18 aprile 1176, Galdino della Sala morì sul pulpito della chiesa di Santa Tecla a Milano, da dove stava terminando un sermone contro gli eretici Catari.
Vverrà nominato santo dallo stesso papa Alessandro III.
È sepolto nel Duomo di Milano, nell'altare della Madonna dell'Albero nel Transetto sinistro.


La Pieve di Travaglia

La pieve è un ambito territoriale che comprende varie comunità civiche ed ecclesiali, comuni e parrocchie. Alla fine del IV secolo, durante l'episcopato di Ambrogio, nella città di Milano la comunità cristiana era ben organizzata ed era provvista di altre chiese oltre la cattedrale. La campagna era invece ancora in gran parte idolatra e pagana. Verso la fine del V secolo, il cristianesimo riuscì ad affermarsi ovunque, anche nei territori rurali nei quali sorsero le chiese battesimali o matrici, che divennero, cioè, madri delle chiese che furono edificate nel territorio. Sono queste le chiese che si chiamarono plebane, mentre l'ambito della loro giurisdizione venne detto pieve.
La pieve si impiantò in un preesistente distretto amministrativo o militare di notevole importanza sociale o bellica, o nel pagus di origine celtica, o nelle stationes o nei castri di origine romana. Come la diocesi stabilì la sua circoscrizione giuridica sopra una già esistente circoscrizione civile, così la pieve abbracciò il territorio di un antico pagus che veniva a comprendere un certo numero di vici o di castra. Se si vuole tentare di stabilire una cronologia nella nascita delle "chiese battesimali" (termine più corretto, in luogo di pieve che entrò in uso solo con l'VIII-IX secolo), alcuni studiosi ragionevolmente ritengono che quelle dedicate a san Vittore possano risalire alla fine del IV secolo; alla metà del V quelle dedicate a santo Stefano; seguono quelle dedicate ai vari martiri, a san Pietro e, verso il periodo carolingio, alla Madonna. Gli edifici caratteristici delle sedi plebane sono la chiesa ed il battistero, dedicato a san Giovanni Battista, ma queste ipotesi non sono tutte suffragate da prove certe.
La pieve rimase l'unica parrocchia di tutto il territorio plebano fino al XII secolo, quando, in seguito al sorgere dei comuni rurali, la chiesa delle singole comunità civiche inizia a prendere autonomia e nacquero le parrocchie.
In questo ampio contesto storico - religioso, c'è la Pieve di Travaglia, con il suo monumento religioso certamente databile all'Alto Medioevo: il Battistero di Domo, che pur tuttavia non può essere assegnato ad epoca anteriore al X secolo, inserito nel complesso religioso comprendente la chiesa di S. Maria e la chiesa "iemale" di S. Stefano. Se dal XII secolo in poi la situazione è chiara: la sede plebana era posta in Bedero, dove ancora si conserva la "canonica" di S. Vittore, le età precedenti sono avvolte nel mistero. Dello spostamento della chiesa battesimale da Domo a Bedero possediamo l'atto autentico con cui l'arcivescovo Robaldo nel 1137, constatate le condizioni di abbandono in cui versava la precedente matrice, ne ordinava lo spostamento sul monte di Bedero. Nelle carte superstiti nel XIII-XIV secolo si riscontra ad un prevalere iniziale del titolo dedicatorio di S. Maria (che è ancora la dedicazione della chiesa di Domo), una fase di titoli associati (S. Maria e S. Vittore), per lasciare infine il posto a quest'ultimo, cui è dedicata la Canonica di Bedero.
Si può anche pensare che il nucleo originario di Domo sia derivato dall'aggregarsi di una piccola comunità attorno alla chiesa battesimale, a scopo di protezione e di servizio. L'origine delle prerogative plebane potrebbe allora ricondursi all'età di Berengario, in coincidenza con le fortune della vicina rocca di Travaglia (Caldè) e in accordo con la datazione del battistero. A simbolo di questa preminenza resta la mole del campanile di Domo.

Lo schizzo primitivo che è contenuto negli atti delle visite pastorali della diocesi di Milano conservati presso la Biblioteca Ambrosiana nel volume "Bedero - 1 - 1547 - 1575" raffigura il territorio della pieve facente capo, dal 1137, appunto a Bedero. Risale agli anni 1570. E' questa la raffigurazione più antica della zona, sinora nota, e delinea i confini della pieve nella seconda metà del cinquecento.


La Visita dell'arcivescovo Robaldo

Era il 4 marzo 1137. E' certamente la più antica visita pastorale in Valtravaglia, documentata da una pergamena conservata nell'Archivio della Curia di Milano, proveniente dall'archivio parrocchiale di Bedero ove rimase fino alla fine del XVI sec. quando fu consegnata al cancelliere arcivescovile can. Maggiolini. Ne esistono alcune copie cartacee, una delle quali nell'archivio parrocchiale di Domo controllata dal parroco di Castello Valtravaglia, Giovanni Andrea Binda, sull'originale.


A seguito di questa visita pastorale, l'arcivescovo Robaldo stabiliva il trasferimento della sede della pieve di Travaglia da Domo a Bedero.
Anche se non è del tutto sciolta la controversia storica sul vero significato del documento (trasferimento della pieve da Domo a Bedero, oppure ricostruzione della pieve a Bedero su un precedente tempio cristiano o pagano) diamo qui una traduzione libera del Privilegio di Robaldo nei suoi passi principali:
"Robaldo, per grazia di Dio arcivescovo della santa chiesa milanese a Guilielmo preposto della pieve di Travaglia e ai suoi fratelli, in perpetuo"
"... pertanto noi, cui spetta provvedere per l'incarico ricevuto alle necessità ed alle utilità delle chiese, dopo molte ed innumerevoli suppliche del predetto preposto e dei suoi fratelli ..."
"... fermamente stabiliamo che la predetta pieve di Travaglia venga trapiantata sul monte di Bedero che è di diritto e di proprietà del beato Ambrogio ..."
" ... la predetta chiesa era stata abbandonata da quasi tutti i suoi parrocchiani, sia perchè difficile ne era l'accesso, come odiosa e derelitta ai propri figli quasi era stata privata dei diritti spirituali e, mentre per troppa vetustà minacciava ruina, veniva a mancare del tutto l'opportunità di ricostruirla ..."
" ... a maggior gloria ed utilità della santa chiesa milanese e del beato Ambrogio ... dal predetto preposto e da tutti i suoi fratelli riceviamo questa fedeltà ..."
" ... io Guilielmo da questo momento sarò fedele ed obbediente all'arcivescovo di Milano Robaldo ed ai suoi successori ... non commetterò atti che possano far perdere alla chiesa pieve di Travaglia l'onore spirituale o temporale ..."
" ... tutto ciò senza imbroglio osserverò; mi aiuti Dio e questi santi vangeli"
"l'anno dell'incarnazione del Signore 1137, ... il 4 marzo".
Il documento evidenzia come il Vescovo agiva nei confronti del preposto di Travaglia come di un proprio fedele in senso feudale; ed il giuramento che ne otteneva è quello stesso di un vassallo al suo "dominus". Dal testo è dato comunque di cogliere anche le esigenze dei fedeli, visto che il Vescovo volle o dovette tener conto della protesta popolare per la scomoda posizione di S. Maria a Domo, troppo distante dalle valli settentrionali della pieve. Fu certo sentita la necessità di garantire il battesimo agli infanti; di disporre di un luogo consacrato per la sepoltura dei morti e finalmente di fruire di un culto comodo e regolare, per fugare le numerose proteste per inadempienze e tiepidezza dei canonici nel servizio delle chiese periferiche.
Occorre qui fare una parentesi e dedicare un po' di spazio a un dotto e attento studioso delle cose di Valtravaglia: Giovanni Andrea Binda, parroco di S. Pietro di Castello (oggi Castelveccana) dal novembre 1829. Nato nel 1803 a Rezzago in Valassina, morì settantenne il 3 giugno 1874. L'archivio della sua parrocchiale poco conserva di lui; un discreto mazzo di note e di appunti è invece conservato presso l'Archivio Parrocchiale di Domo e come siano finiti lì è facile intendere. Anche Francesco Cristini, parroco a Domo dal 1897 al 1908, coltivò interessi storici e verosimilmente fu lui a procurarsi quegli scritti, conservandoli con ogni cura. Il Binda resta comunque colui che setacciò, ai suoi tempi ancora integri, l'archivio capitolare di Valtravaglia e della pretura di Luino, prima che svanissero nel nulla. Anche le raccolte milanesi furono setacciate ed ora, quegli appunti, sono fra le più antiche testimonianze dei nostri luoghi e della nostra gente.


Dedicazione e storia della chiesa di Porto

L'antica chiesa era in stile romanico, ad una sola navata, risalente al 1000-1100. Misurava circa metri 12,50 in lunghezza, 5,30 in larghezza, 7 in altezza. Le attuali navate laterali sono state aggiunte, sfondando le pareti laterali della chiesa e ricavando gli archi ed i grossi pilastri attuali. La chiesa è stata allungata e la facciata attuale risale al 1400, come lo potrebbe dimostrare l'affresco votivo dedicato a s. Rocco dipinto sul lato interno della facciata e datato 1524. Durante i lavori di sistemazione esterna del 1979 è stata scoperto un graffito sulla facciata esterna "IHS 1664".
L'affresco di s. Rocco venne fatto "devotamente eseguire da Bernardino e Giovanni, vera discendenza di Minetti Erminio" nel 1524. Lo stile è della scuola del Borgognone.
Durante i lavori di posa nel nuovo altare nel 1978 venne alla luce l'antica abside circolare, pavimentata in beola e le fondamenta del muro perimetrale.
L'altare originario della chiesa era interamente in legno scolpito e adorno di statuette di angeli e santi. Al centro aveva un tempietto di quattro colonne ritorte e adornate da rami di foglie; al centro campeggiava una Madonna Assunta ed ai lati due angeli con cornucopie che sorreggevano un cero.
La prima ed unica dedicazione della chiesa avvenne il 21 luglio 1581 per opera di s. Carlo Borromeo, racchiudendo nell'altare le reliquie di s. Massimo Martire.
Successivamente lo stesso altare fu riconsacrato dal card. Schuster il 24 novembre 1930 e le stesse reliquie furono riposte unitamente al cartiglio originale scritto di pugno da s. Carlo e riscritto al retro dal card. Schuster.
Negli anni 1924-25 la chiesa su oggetto di vari interventi, fra i quali l'innalzamento del campanile di un piano, un radicale restauro interno ed esterno, la realizzazione della attuale piazza mediante sterro del piazzale che a quel tempo era a livello della via Roma e che arrivava a pochi metri dalla chiesa. Le tre campane erano state fuse nel 1834: "Michael Comerius fecit" è impresso nel bronzo di ciascuna unitamente alle rispettive dediche:
campana maggiore: a fulgora e tempestate libera nos Domine
campana mezzana: ad maiorem Dei gloriam
campana minore: sit nomen Domini benedictum
L'organo è stato costruito nel 1868 Giovanni Mentasti in società con Pietro Talamona.
Si realizzò anche la scala in granito al centro della piazza e si tolse la scala della facciata, realizzando invece l'attuale terrapieno. I lavori terminarono a Natale del 1926.
La Via Crucis in bronzo è stata realizzata negli anni '50, dono della famiglia Lucchini.
Le balaustre originarie vennero tolte nel 1972 e nello stesso anno vennero motorizzate le campane.
Il nuovo altare della chiesa, quello attuale, venne realizzato in occasione del XXV di ordinazione del parroco don Carlo Rimoldi e fu consacrato dal mons. Bernardo Citterio il 14 agosto 1978. Nel sepolcreto furono poste le reliquie dei santi Massimo, Protaso e Gervaso, Maria Goretti, Ambrogio e Carlo e Domenico Savio. La mensa in marmo bianco consacrata da s. Carlo e riconsacrata dal card. Schuster (e recante l'iscrizione della sua seconda consacrazione) venne inglobata nell'altare maggiore ed è visibile per una sua completa lettura. Con l'occasione venne recuperato il cartiglio originale scritto da s. Carlo e integrato dal card. Schuster e riposto in un artistico reliquiario.
Il 5 luglio 1981 il card. Giovanni Colombo incoronò la nuova statua in legno della Madonna Assunta.
Negli anni '80 vennero anche realizzate le diverse vetrate artistiche realizzate dai Fratelli Villa di Buscate.
Dopo il rifacimento del tetto, sotto il parroco don Walter Casola, nel 2012-2014 è stata eseguita una serie di imponenti restauri: la ritinteggiatura esterna del campanile e delle facciate; il completo rifacimento degli interni e degli altari della Madonna e di S. Carlo riportati all'originario splendore. E' stato rifatto l'impianto di illuminazione.
All'esterno, sopra una porta murata, è stato riportato alla luce in una lunetta l'affresco di una Madonna Assunta. L'intervento più significativo è stato il restauro degli affreschi di s. Rocco sulla controfacciata e quello degli angeli musicanti nella Cappella della Madonna (già Cappella Porta). Le opere sono state eseguite dal Laboratorio San Gregorio di Busto Arsizio.
Attribuito dalla Soprintendenza alla bottega degli Avogadro (o " de Advocatis"), l'affresco degli angeli dovrebbe risalire al secondo, terzo decennio del XVII secolo, quindi attorno al 1620-1630. Nello stesso periodo, precisamente nel 1612 Johannes Baptiste de Advocatis (pittore milanese attivo nella provincia di Varese nei primi anni del '600) autore di una pala d'altare e di alcuni affreschi in S. Caterina del Sasso a Leggiuno, mentre nella chiesa di s. Stefano a Mombello ha lasciato la sua opera maggiore. Qui ha affrescato la volta dell'abside con la "gloria della Madonna Assunta in cielo" al centro di un concerto angelico, molto simile a quello sito nella parrocchiale di Porto.


le consacrazioni della chiesa di Domo

La dedicazione è uno dei più antichi riti con il quale il Vescovo consacra e dedica la chiesa a Dio e ad uno più santi patroni. La cerimonia comprende vari momenti di altissimo significato simbolico: il celebrante bussa alla porta della chiesa, vengono invocati i Santi, si ungono con il sacro Crisma dodici croci, su altrettante colonne, a ricordo dei dodici apostoli che sono il fondamento della Chiesa; si depongono all'interno dell'altare le reliquie dei martiri, a ricordo che i primi altari erano costruiti direttamente sulle tombe dei martiri; si ungono cinque croci agli angoli ed al centro dell'altare, sopra si accendono altrettanti ceri, a ricordo delle cinque piaghe del Signore morto in croce. Infine si asperge la mensa, la si incensa, la si copre con le tovaglie ed si celebra la messa della Dedicazione. San Carlo Borromeo ebbe molto a cuore la consacrazione delle chiese e degli altari durante le sue numerosissime visite pastorali, cogliendo tali occasioni per richiamare i fedeli alla pratica religiosa; così fece il Card. Schuster, sulle orme dello stesso san Carlo. Entrambi i vescovi, nelle rispettive visite in Valtravaglia, non mancarono di consacrare altari e chiese.

Ricordiamo questo mese le date di consacrazione della chiesa e dell'altare di Domo.

Anzitutto il 23 aprile (di un anno imprecisato tra il V ed il X sec.) che si dice "è festa di precetto, perché è il principale giorno della consacrazione di questa chiesa" come risulta dagli atti della Visita pastorale del card. Federigo Borromeo del 12 agosto 1596.
In una relazione del parroco Vagliani del 1685 si ha una descrizione di come dovesse essere la chiesa alle origini. "Consiste la chiesa suddetta in una sola nave assai vasta e sufficiente a capire da settecento in ottocento persone, chè tanti sono i sudditi a detta Cura. Vien questa sostenuta da tre archi tra quali v'à un soffitto legato in quadretti di tavole lariche". Il presbiterio aveva la volta dipinta con le immagini dei quattro Evangelisti e l'immagine di Dio Padre entro la mandorla mistica, e le pareti laterali dipinte, la destra con l'immagine dell'Assunta, la sinistra con vecchie pitture "la maggior parte delle quali è stata rubbata dal tempo".
Queste le dimensioni interne della chiesa "antiquissima" di Domo: lunghezza cubiti 38, larghezza 14, cioè mt. 16,70 x 6,20 circa; vi si entrava scendendo tre gradini.

Poi abbiamo il 14 giugno 1583, data di consacrazione dell'altare da parte di S. Carlo Borromeo. L'arcivescovo, partito da Milano il 13 giugno, giunse - come consuetudine - alla sera a Domo e trovò che erano stati eseguiti i suoi decreti emanati nella precedente visita e che la chiesa ed il cimitero erano stati restaurati e rinnovati, come egli aveva desiderato. Il giorno seguente celebrò pertanto la messa di consacrazione dell'altare maggiore in onore della Beata Vergine e, dopo il canto del Vangelo, tenne al popolo un devoto sermone. Terminata la messa, uscì a benedire il cimitero.

Infine il 12 agosto 1947 è la data della consacrazione della chiesa da parte del Card. Schuster, resasi necessaria a seguito degli imponenti lavori di trasformazione che l'edificio aveva subito al tempo del parroco Giovanni Battista Isabella, originario di Torre.
Fin dal 1788 gli amministratori invitarono infatti tali Francesco e Silvestro Giorgetti a stendere una perizia sullo stato della chiesa e relativo preventivo per il rifacimento e l'allargamento del tempio. Nella suddetta perizia si legge: "Gli architravi erano spaccati ed aperti in diversi siti, l'architrave maggiore del Sancta Sanctorum era stato ritrovato minacciante gravissima ruina, anche la volta del Coro era qua e là screpolata e quasi cadente, come pure le stesse muraglie; la navata era quasi staccata per numerose fessure, il tetto una continua minaccia per il popolo in Chiesa radunato. Infine la Chiesa era di molta angustiosità e non capace di contenere tutto il popolo".
Per questo si decise di allargarla tenendo buone solo una parte delle antiche pareti e di fare il soffitto in volta. La chiesa fu innalzata e si murarono le finestre antiche aprendone altre al di sopra del cornicione. La somma totale preventivata fu di lire venete 13.800. Nell'ampliamento fu incorporata una parte del cimitero. I lavori durarono ben cinque anni e terminarono nel 1795. Nel 1943 furono intrapresi i lavori di decorazione della chiesa, che divenne come appare oggi.


Domo, i Perlo e S. Filippo

Pochi conoscono la storia dell'Oratorio San Filippo, tutt'ora esistente a Domo - pur in cattive condizioni - davanti alla vecchia casa parrocchiale e a fianco della chiesa. La sua costruzione la si deve ad una famiglia di origine piemontese, i Perlo, che è entrata nella storia della Valtravaglia ed il più noto per noi fu Filippo che i nostri anziani ancora ricordano come " il dottor Perlo".
Era nato a Caramagna il 19 marzo 1863, figlio di Bartolomeo e Fusero Agnese.
Il 12 aprile 1908 il consiglio comunale di Porto Valtravaglia lo nominava medico condotto consorziale. Il fratello Enrico diventerà invece un importante teologo.
Era risultato vincitore del concorso a suo tempo bandito per la copertura del posto vacante. Il suo stipendio era inizialmente di Lire 3.000 annue, che sarebbero poi diventate 9.000 nel 1925.
Risiedeva in piazza della chiesa a Domo, in quella che fu la chiesa di S. Stefano e trasformata parzialmente in abitazione. Soleva muoversi a bordo di un calesse trainato da un cavallo. Fu un personaggio assai stimato, un medico dal grande cuore.
Domenica 21 e lunedì 22 novembre 1926 il "cav. uff. comm. Perlo dott. Filippo" festeggiava le nozze d'argento con la moglie Rina Rombi. Il settimanale "Corriere del Verbano" di quei giorni scrive: "I generosi coniugi vollero prepararsi degnamente alla fausta ricorrenza offrendo al R. Parroco locale la cospicua somma di L.30.000 lire per la costruzione di un oratorio per la gioventù di Domo dedicato alla memoria del loro defunto unico figlio Filippo". Seguirono i festeggiamenti per la commenda concessa da Pio XI in nome di questa e altre benemerenze. Con l'occasione ci fu l' inaugurazione dell'oratorio. Con l'occasione il dott. Perlo festeggiava anche i suoi 20 anni di "lodevolissimo servizio sanitario".
Domenica 21 ci fu la s. messa celebrata dal prevosto di Bedero e predica del prevosto Croci della parrocchia S. Gioachino di Milano. "Alle 15,41, con diretto da Novara arrivò da Torino S.E. Mons. Perlo Filippo, il Can. Bues (già parroco di Castagnole Piemonte e poi Canonico del Duomo di Torino) ed il Rev. Teologo Enrico Perlo fratello dell'amatissimo dottore". Era parroco di Domo don Enrico Longoni.
Il dott. Perlo sarebbe rimasto in servizio fino al maggio 1934, quando fu colpito da anemia grave e dovette far ricorso a numerose trasfusioni. Il suo medico curante era tale Vittorio Ronchetti, che relazionò alla Giunta Comunale sulla necessità di un periodo di riposo per il collega Filippo Perlo. Durante la malattia il dott. Perlo fu sostituito da Mauro Napoletano e poi da Oreste De Prati.
Fu medico consorziale della Valtravaglia per 29 anni, fino alla morte avvenuta a Domo il 23 giugno 1934. E' sepolto nel cimitero di Domo accanto alla moglie Rina Rombi (S. Angelo Lodigiano 26.11.1879, Montevecchia 31.3.1941) e alla sua fedele domestica Vittoria Fiorini (26.9.1908 - 1.8.1992).
La signora Rina ha lasciato poi in eredità alla parrocchia alcuni gioielli in oro con il quale è stata realizzata gratuitamente dall'orafo Vittorino Ongari una lunetta per trattenere l'ostia consacrata nell'ostensorio solenne.

La famiglia Perlo non si esaurisce qui. Le ricerche d'archivio ci hanno fatto incontrare altri tre fratelli Perlo: Enrico, teologo, fratello del dottor Filippo, che venne a Domo per l'inaugurazione dell'Oratorio. Aveva celebrato la sua prima Messa a Caramagna il 2 luglio 1911. Lo ritroviamo poi a Filadelfia, negli Stati Uniti, quando celebra il suo giubileo sacerdotale il 20 settembre 1936 come Parroco della chiesa di s. Maria Maddalena de Pazzi.

Poi un altro Filippo, mons. Filippo Perlo (1873-1948) primo successore del beato Giuseppe Allamano alla guida dell'Istituto dei missionari della Consolata e vescovo in Kenya, e i suoi due fratelli Gabriele e Luigi, entrambi missionari della Consolata.
Gabriele (1879 - 1948) diventerà vescovo missionario di Mogadiscio in Somalia.

Tutti originari di Caramagna, riteniamo potessero essere cugini del nostro dott. Perlo.

Il calice datato 10.6.1911 dono del dott. Filippo Perlo e conservato a Domo


la chiesa della Madonna delle Cappelle

Davanti al cimitero di Porto sorge una piccola chiesa la cui originaria denominazione era della "Madonna del fiume", titolo poi diventato "della Madonna delle cappelle". Cerchiamo di ricostruirne la storia, per quanto possibile.
Le origini della chiesa non sono note: dietro di essa scorre il torrente Muceno e a fianco una passerella in legno ne permetteva il passaggio verso le località di Roccolo, Nuvolina e Ticinallo. La strada Laveno-Porto-Luino è stata realizzata solo negli anni '30.
Attorno era circondata da prati che digradavano verso il lago e la via Rivazzola (l'attuale via Borgato).
Il titolo di "Madonna delle cappelle" risale alla prima metà del 1700 quando i frati francescani ottennero dal papa Benedetto XIII (nel 1731) la facoltà di istituire e benedire le Via Crucis anche al di fuori dei loro conventi e delle loro chiese. Non dimentichiamo che furono proprio i frati francescani a diffondere prima il presepe, poi il pio esercizio della Via Crucis. L'origine di questa seconda tradizione è dovuta soprattutto ai francescani della Spagna, che diffusero anche la processione del Venerdì santo con il Cristo morto (come avviene ancora oggi a Germignaga).
Pian piano la Via Crucis venne strutturata in 14 stazioni (rappresentate da altrettante cappellette o quadri) distribuite lungo un percorso da percorrere meditando e pregando i misteri della passione.
Nella Diocesi di Milano fu s. Carlo Borromeo a promuovere l'esercizio della Via Crucis nei venerdì di quaresima, quando - come è tradizione del rito ambrosiano - non si celebra la s. Messa.
Così i primi decenni del 1700 costituiscono un periodo ricco di esperienze religiose come le Quarantore, la Via Crucis, le devozioni al Nome di Gesù, ai Santi, alle anime del purgatorio. E' in quegli anni che nascono anche le relative confraternite.
Anche la Valtravaglia viene coinvolta in questa grande rinascita devozionale. Nel 1853 le Orsoline di Bedero offrono alla chiesa prepositurale le 14 immagini della Via Crucis. Ad imitazione dei Sacri Monti, anche la Via Crucis ha ormai assunto la forma delle 14 cappelle, costruite attorno alle chiese o ai cimiteri, come ancora oggi vediamo in qualche paese che ha avuto la buona sorte di conservarle.
Questi antichi percorsi devozionali valtravagliesi (come si deduce dai documenti d'archivio) furono: nel 1753 a Porto Valtravaglia, in località il fiume, presso l'oratorio dell'Immacolata;nel 1756 a Bedero attorno alla Canonica; nel 1763 a Castelveccana al cimitero di s. Pietro; nel 1769 attorno alla chiesa parrocchiale di Porto; nel 1784 attorno alla chiesa di s. Maria di Corte a Muceno; nel 1784 attorno alla chiesa di Domo e all'antico cimitero davanti alla chiesa di s. Stefano; nel 1825 a Nasca; nel 1825 a Sarigo presso la chiesa di s. Giorgio; nel 1827 a Castelveccana attorno alla chiesa di s. Pietro; nel 1839 attorno alla chiesa di Musadino; nel 1842 a Brezzo presso l'oratorio di s. Rocco.
Di questi percorsi ben poco è rimasto, ad eccezione delle cappellette di Domo e qualcuna attorno alla Canonica di Bedero e alla chiesa di S. Pietro.
Da questo fervore religioso, nacque appunto la nuova dedicazione della nostra chiesetta dell'Immacolata al fiume, come la conosciamo oggi: "Madonna delle cappelle".
Foto in alto degli anni '30 nella quale si vedono le ultime cappelle della Via Crucis, ormai in rovina, e sotto il portichetto i fedeli in sosta durante una processione eucaristica. Il parroco era don Giovanni Pozzi.

altra foto degli anni '30: le cappelle sono scomparse

 

foto del 1911: le cappelle si intravedono a sinistra della chiesa


Via Girelli e le Orsoline

Alcuni si chiedono l'origine del nome dato alla strada che attraversa la frazione di Domo intitolata "Via Girelli". Per trovare una spiegazione occorre fare un passo indietro nel tempo, fino al 1500.

Con il nome Orsoline vengono indicate numerose religiose (sia suore che monache) e appartenenti a istituti secolari: molte hanno in comune il riferimento ad Angela Merici, altre hanno adottato il nome di "orsoline" come sinonimo di "insegnanti".
L'originaria congregazione delle Orsoline fu fondata da Angela Merici (1474-1540), canonizzata nel 1807: dopo l'ingresso nel terz'ordine francescano, iniziò a impartire lezioni di catechismo alle bambine e ragazze di Desenzano e nel 1516 venne invitata a svolgere la stessa opera a Brescia. Dopo un pellegrinaggio a Roma e in Terra Santa, il 25 novembre 1535, presso la chiesa di Santa Afra a Brescia, Angela, assieme ad altre ventotto compagne, si impegnò a dedicare il resto della sua vita al servizio di Dio, specialmente mediante l'istruzione e l'educazione delle fanciulle: diede così inizio alla Compagnia delle dimesse di sant'Orsola. Le prime orsoline vivevano "da vergini nel mondo", ovvero non praticavano vita comune, non avevano abito religioso e non emettevano voti.
Le dimesse della Compagnia rimanevano nello stato laicale, conducevano una vita ritirata, si riunivano periodicamente per la comunione generale, seguivano la regola preparata dalla fondatrice ed erano soggette all'autorità dei vescovi locali, che riconoscevano come unici superiori.
La compagnia ebbe rapida diffusione. Nel 1566, per esempio, Carlo Borromeo chiamò le orsoline a Milano. Seguendo il suo esempio, molti vescovi favorirono la formazione di compagnie di orsoline nelle loro diocesi. Alla fine del 2008 esistevano ancora 31 monasteri di orsoline con 312 religiose di voti solenni.
Le orsoline secolari, disperse e quasi scomparse durante il periodo napoleonico, risorsero a Brescia per opera delle sorelle Maddalena ed Elisabetta Girelli, aiutate dal vescovo Girolamo Verzieri. Le sorelle Girelli curarono anche la diffusione delle orsoline in altre diocesi d'Italia e del mondo, dando origine a numerose compagnie diocesane.
Nel 1947 papa Pio XII promulgò la costituzione Provida Mater Ecclesia, con la quale vennero creati gli istituti secolari, e le compagnie diocesane di orsoline vennero inquadrate come tali, dando poi vita alla Compagnia di Sant'Orsola (o "Istituto Secolare di Sant'Angela Merici"), con sede principale a Brescia.
Tra le numerose congregazioni di orsoline attualmente esistenti, le maggiori sono le Suore Orsoline di San Carlo di Milano, la più antica congregazione, sorte per volontà di Carlo Borromeo (1566) e restaurate nel 1824 a opera di Maria Maddalena Barioli. Fino a qualche decennio fa presso la Canonica di Bedero c'era una Casa delle Orsoline.